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La lobby israeliana processa Bush
Il presidente è sotto accusa per la timida condanna degli omicidi mirati.
«Come può fare la morale a Sharon?»
«Cattivo esempio» Ma anche i commentatori accusano la Casa bianca: «Gli Usa
per primi nello Yemen hanno assassinato presunti terroristi»
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
Tutti aspettavano la rivolta dei filo-israeliani contro le parole di
condanna pronunciate da George W. Bush martedì scorso nei confronti di Tel
Aviv per il tentativo di assassinio di Abdel Aziz Rantisi. E la rivolta è
arrivata, malgrado nel frattempo lo stesso Bush avesse avuto modo di
«bilanciare» quelle sue parole con la condanna - dai toni ben più forti -
dell’attacco palestinese a Gerusalemme di mercoledì. Il caso ha poi voluto
che alla commissione esteri della camera ci fosse in programma una
«audizione» di Wiliam Burns, l’assistente di Colin Powell per il Medio
oriente, che si è trovato a fronteggiare le bordate dei democratici. Tese a
difendere Israele come è loro tradizione, ma anche a denunciare la
contraddizione pressoché insanabile nella politica di Bush. In soldoni,
quella contraddizione è riassumibile con un «perché Israele non può fare ciò
che gli Stati uniti si ritengono in diritto di fare?». E più concretamente:
perché gli Stati uniti possono mandare nello Yemen un Predator a sparare
contro un’automobile ammazzando tutti e cinque i suoi occupanti nella
presunzione che fra loro ci sia un militante di al Qaeda e invece Israele
non può cercare di assassinare uno dei leader di Hamas? E poi, perché gli
Stati uniti possono cancellare la linea solennemente dichiarata trenta anni
fa che proibiva la pratica dell’assassinio dal modo di far politica di
Washington e la stessa cosa deve essere proibita a Israele?
Sull’onda di un’iniziativa dell’Aipac (American israel public affairs
committee, una delle più influenti «lobby» israeliane), che ha risposto alla
condanna di Bush con una dichiarazione durissima («Israele vuole e deve
prendersi la responsabilità di combattere le organizzazioni terroristiche e
la politica degli Usa deve essere quella di sostenere la sua azione»), vari
deputati hanno assalito il povero William Burns con parole altrettanto dure.
«La dichiarazione di condanna di Bush - ha detto Gary Ackerman, democratico
di New York - fa venire in mente la parola ipocrisia. Come possiamo
intraprendere certe azioni contro il terrorismo e poi, quando altri fanno
esattamente la stessa cosa, dire che ciò non aiuta?». Sulla stessa corda
Robert Wexler, democratico della Florida («L’azione di Israele era
giustificata al cento per cento») e Tom Lantos della California che è anche
il leader della minoranza democratica in seno alla commissione Esteri:
«Israele ha fatto ciò che facciamo noi. Ogni società farebbe la stessa cosa.
Un governo deve difendere i propri cittadini». Nelle sue risposte,
l’assistente di Powell ha cercato di barcamenarsi dicendo che Abu Mazen
dovrebbe «fare di più» per tenere a freno i terroristi e dicendosi sicuro
che «è impegnato a farlo», e intanto le «fonti» del dipartimento di Stato
spiegavano che la situazione è estremamente delicata, che la stessa
posizione di Mazen è molto precaria e che proprio per dargli una mano Bush
aveva «bisogno» di prendersela con Israele per il tentativo di assassinare
Rantisi.
Ma oltre ai deputati democratici, i cui attacchi a Bush si possono spiegare
anche con il «partito preso» e con il loro desiderio di non perdere il
«rapporto privilegiato» che da sempre mantengono con l’elettorato
filo-israeliano, ci sono anche gli analisti più o meno neutrali che
insistono sulla contraddizione in cui si trova ora il presidente. «Gli Stati
Uniti - dice Scott Lasensky, del Council on foreign relations - non sono in
una posizione di dire ad altri paesi, in particolare a Israele, che questo è
un comportamento sbagliato. Noi abbiamo fatto la stessa cosa nello Yemen e
in altri posti», per non parlare del fatto che le dichiarazioni pubbliche
fatte per mesi da Bush e da Ariel Sharon sono praticamente intercambiabili,
il che spiega perché il primo ministro israeliano sia stato sin dall’inizio
il più strenuo sostenitore di Bush nelle «campagne» di Afghanistan e Iraq.
Chi è in grado di distinguere se l’espressione «Nessuna concessione ai
terroristi» appartiene a Bush o a Sharon? Bush oltre tutto è reduce da una
guerra scatenata con una giustificazione - le armi proibite in mano al
regime iracheno - che non risce ancora a dimostrare, con grave nocumento
alla sua credibilità.
Conclusione: la guerra contro l’Iraq, che doveva essere il trampolino capace
di dare a Bush più efficacia nella ricerca della pace fra Israele e
palestinesi rischia di rivelarsi un ostacolo che quello stesso processo di
pace si trova ad affrontare. E lo stesso Bush è costretto ad imparare che le
cose sono sempre molto più complesse di quanto lui riesca ad afferrare.