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MOVIMENTO PUNTO E A CAPO

Publie le mercoledì 8 ottobre 2003 par Open-Publishing

I no global si dividono sul corteo di sabato. Benzi della Cgil accusa: «C’è
qualcuno che pensa già alle elezioni». I disobbedienti rivendicano lo
«sfondamento della zona rossa» e attaccano le «burocrazie sindacali» sul
palco di piazza del Popolo. Ma tra loro non c’è accordo sulle modalità di
piazza. I Giovani comunisti: così paghiamo un prezzo troppo alto. E su
Indymedia si parla di «vittoria della polizia»

di ANGELO MASTRANDREA

Una sconfitta o una vittoria? L’inizio della fine o un nuovo punto di
partenza? Se non aveva i numeri e le forze per impedire l’avvio della
Conferenza intergovernativa, la manifestazione di sabato a Roma ha
sicuramente prodotto il risultato di far discutere, probabilmente per la
prima volta così in profondità, il cosiddetto movimento dei movimenti. Nei
luoghi e con le modalità ad esso più consoni, ovviamente: dalle assemblee
delle varie organizzazioni che lo compongono alla rete.

Il bilancio della
due giorni di contestazione al summit europeo è infatti impietoso, per
quello che veniva presentato come l’avvio dell’«autunno caldo» del
movimento: un corteo lontano dalle grandi adunate di un anno fa anche se dai
numeri affatto irrilevanti visto che una parte consistente ha preferito
puntare sulla Perugia-Assisi di domenica prossima, ma ingabbiato nella morsa
di 5 mila agenti; un forum sulla Costituzione europea all’università di Roma
che se da un lato è servito a creare «un clima di dialogo» e a evitare la
contrapposizione con la contemporanea manifestazione dei sindacati europei,
come spiega Gianfranco Benzi della Cgil, dall’altro è stato praticamente
ignorato al di fuori del circuito militante.

Parliamo dei media come di
buona parte dei politici dell’opposizione ma soprattutto di chi avrebbe
dovuto costituirne il corpo vivo, vale a dire gli studenti dell’università
più grande d’Europa. Unici a intervenire, infatti, i pur lodevoli ragazzi
che la sera precedente avevano occupato la facoltà. Nulla a che vedere con
le centinaia e a volte migliaia di persone che hanno affollato le assemblee
di movimento degli ultimi due anni. Cosa è accaduto nel frattempo? Il fatto
è che «il movimento non può sopravvivere solo come riflesso di eventi
esterni quali la guerra o il vertice di Cancun», spiega ancora Benzi, ma
«deve entrare nel merito delle questioni sociali, altrimenti si esaurirà».

«C’è troppa cautela nell’affermare cosa si vuole sul terreno delle lotte
sociali e non dice nulla anche su grandi questioni sovranazionali come il
conflitto israelo-palestinese», continua. E «può essere costruttivo solo se
riesce a darsi un contenuto programmatico», non «se qualcuno pensa di
utilizzarlo per candidarsi alle elezioni o qualche forza politica di poterne
incassare i dividendi». Come a dire che la campagna elettorale è già
cominciata e anche il movimento ne sta inevitabilmente facendo le spese.
La critica corre su Indymedia

Dopo sabato, quello che era latente già da qualche mese, più o meno dal
dopo-referendum sull’articolo 18, è esploso con maggiore evidenza. Uno dei
termometri più attendibili per misurare la febbre al movimento è ancora una
volta Indymedia. Nato con il «popolo di Seattle» per raccontare attraverso
gli stessi protagonisti i grandi eventi di contestazione, oggi si ritrova ad
essere l’unico luogo in cui il confronto è alla luce del sole. Il «la» lo ha
dato una delle anime del collettivo, Blicero. «Sabato si è dato lo scenario
in cui gli unici perdenti siamo noi: la polizia è riuscita a tenere la
piazza in maniera eccellente non prestando il fianco a possibili attacchi» e
risanando «in parte Genova», ammette. Per questo ora non rimane che «surfare
sull’onda di risacca». Altri commenti parleranno di «luci e ombre» o di
«problemini e problemoni».

C’è chi parla di «pratiche gruppettare» e chiede
di «abbandonare la rappresentazione dello scontro» e «la sua
spettacolarità», chi critica «il tentativo di sfondamento dei disobbedienti
perché attuato in un punto pericolosissimo per la presenza di centinaia di
agenti su ogni lato» che «se solo avessero voluto avrebbero chiuso ogni via
di fuga e sarebbe successo un macello come a Napoli», e chi invece, pur
«antidisobbediente», «a malincuore» rivolge loro i complimenti.

E qui veniamo al punto più dolente, che tocca una delle componenti più forti
e vitali di questo movimento. L’assemblea di domenica al centro sociale
Corto circuito di Roma ha partorito infatti un documento dai toni duri nei
confronti delle «burocrazie sindacali» e che rivendica «fino in fondo la
contestazione del vertice, in tutte le sue articolazioni», e segnato una
frattura profonda in quel movimento con una parte significativa dei centri
sociali che vi aderiscono e con i Giovani comunisti. Tanto che nei prossimi
giorni la divisione dovrebbe produrre delle prese di posizione pubbliche da
parte dei dissidenti. Problemi in parte preesistenti, se è vero che sabato
notte per andare a Roma i disobbedienti milanesi hanno scelto tre orari e
due stazioni diverse.

E in piazza si è visto: il cospicuo spezzone
disobbediente al momento del fronteggiamento con la polizia si è più che
dimezzato, e Rifondazione ha addirittura fatto dietrofront senza arrivare
alla fine del corteo. Tra i più insofferenti, il Leoncavallo di Milano che
ora avanza «problemi molto seri di legittimità di quell’assemblea a
decidere» per tutti, visto che ad essa sarebbero state presenti solo i
disobbedienti di alcune aree geografiche, in particolare romani e del
nord-est. «Ci sono ampi disaccordi di metodo e di sostanza», si limita a
dire il portavoce Daniele Farina.

Ma leggiamola, la «sostanza» contestata:
«L’altra Europa non era sul palco di piazza del Popolo, se a parlare
potevano essere solo le burocrazie sindacali, con il loro equilibrismo
continuo che poco serve (o molto nuoce) a milioni di lavoratori. L’altra
Europa non può nemmeno nascere se a parlare, anche all’Eur, fossero state le
compatibilità o la testimonianza. L’altra Europa esiste se esistono coloro
che sono disposti a costruirla, a conquistarla, anche scontrandosi con
l’arroganza dei sovrani». E ancora: «La storiella che ci sono azioni "buone"
e "cattive" è finita», scrivono rivendicando il diritto a non farsi
utilizzare in piazza da nessuno.

Posizioni che fanno storcere il naso ai
Giovani comunisti, che non ci stanno a dire che le migliaia di persone scese
in piazza sono «testimonianza», non condividono le accuse ai sindacati alla
vigilia dello sciopero generale sulle pensioni e di quello della Fiom e
pensano sia finita l’era delle zone rosse da violare. Così commenta il
coordinatore nazionale Nicola Fratoianni: «Non si può presentare la giornata
di sabato come un successo, perché rischiamo di pagare tutti un prezzo alto,
a cominciare dai due arrestati». Uno dei quali è un dirigente del Prc di
Arezzo.