Home > Meglio disintossicarsi che ridurre il danno
Legge Biagi. Le nuove norme sul mercato del lavoro sono terrificanti: il lavoro è ridotto a puro rapporto commerciale. Non si può «gestirle al meglio», ci si deve opporre per creare «zone liberate» dalla precarietà
FULVIO PERINI*
Il decreto del governo sul lavoro impressiona. Lette tutte insieme e di seguito, le nuove norme di demolizione delle precedenti regole del mercato del lavoro ti colpiscono. Rischi l’overdose. Dobbiamo allora ridurre il danno? Meglio il metadone dell’eroina? Ci conviene avere chiari quali rischi di dipendenza abbiamo di fronte. Dipendere da un altro essere umano non è come dipendere da una sostanza. L’unica strada è disintossicarsi. Condurre una lotta per riguadagnare dignità lese e libertà perdute. Il nuovo decreto introduce la «borsa continua del lavoro», sapremo tutti i giorni quanti esseri umani sono stati venduti e comperati e a quale prezzo. Il pensiero ritorna alla discussione che si svolse a Torino tra il 1889 ed il 1892 se chiamare l’istituzione dei lavoratori «borsa» o «camera» del lavoro. Come sappiamo si optò per «camera», vendersi collettivamente era meglio che essere venduti individualmente. Il nuovo decreto del governo si presenta come un manifesto ideologico, persino esasperato. Come farà un’impresa ad applicare tutte quelle forme di lavoro che finora abbiamo chiamato atipiche? Ma una nuova situazione si afferma: il mercato del lavoro si autonomizza dalla domanda e dalla offerta reali di forza lavoro. Non siamo solo alla crescita della precarietà, siamo alla costruzione di un mercato in quanto tale come è avvenuto per la moneta negli anni `70.
Se un lavoratore viene licenziato e riassunto ogni ora nell’arco della giornata di lavoro ci saranno 8 atti di compravendita su cui una agenzia del lavoro guadagnerà qualcosa. Meno domanda e offerta si incontrano stabilmente, meglio è per il mercato. Ne vediamo già gli effetti: le agenzie di lavoro interinale polemizzano con le nuove norme per i lavori in appalto e le cooperative perché faranno concorrenza «somministrando», «intermediando», «selezionando», «ricollocando» esseri umani (pardon... «risorse») a un prezzo più basso; si superano i cosiddetti co.co.co. con i «contratti a progetto» per evitare una concorrenza sleale (cioè a costo più basso) agli artigiani; si introduce il «lavoro intermittente» (il job calling respinto dai lavoratori della Zanussi) per i disoccupati con meno di 25 o più di 45 anni e, contemporaneamente, il contratto separato per i lavoratori metalmeccanici introduce il lavoro a chiamata per tutti i lavoratori già dipendenti pagando le 16 ore giornaliere di attesa della chiamata 3 per le qualifiche più basse e 6 per le più alte (anche per l’attesa ci vuole una professionalità diversa). Come si nota dalle tante virgolette cambia il linguaggio. L’unico termine che sembra rimanere è «datore di lavoro», secondo le regole del mercato dovrebbe chiamarsi «compratore di lavoro» dato anche che il lavoratore diventa «prestatore d’opera», ma qualcuno che faccia del bene ci vuole, allora è giusto confermare il vecchio termine. Verrà buono dopo aver demolito la contrattazione collettiva e lo stato sociale, affermando la «responsabilità sociale dell’impresa».
Credo vada condotta un battaglia intransigente contro questo modello sociale. Senza illusioni verso società future che verranno, conquistando giorno per giorno nuovi spazi di libertà, nuovi ambiti di solidarietà tra lavoratori, nuove coscienze critiche e nuovi comportamenti sociali. Penso a una lotta dove ci sono dei no determinati in funzione della non applicazione prima e della cancellazione poi delle norme più disumanizzanti contenute nel provvedimento del governo. Non credo si possa ridurre il danno, queste norme non vanno applicate, ci si dovrà comportare come faceva Bruno Buozzi nelle sue relazioni morali ai congressi della Fiom: abbiamo condotto un certo numero di battaglie, ne abbiamo perse tante e ne abbiamo vinte tante. Tre sono gli ambiti di questa lotta: ristabilire una situazione in cui ci si vende ma non si può essere venduti, eliminare i rapporti di lavoro che negano la possibilità a chi lavora di poter migliorare - nel lavoro - la propria condizione e di organizzarsi collettivamente, fare in modo che chi assume lavoratori sia un imprenditore e non un mercante. Nel primo caso, si tratta di eliminare il lavoro chiamato somministrato e di ricondurre il lavoro in appalto o in cooperativa ad attività produttiva e non a intermediazione di manodopera. Una parte della sinistra obietterà: «allora si elimina il lavoro interinale». Non sarebbe male, già oggi la frequenza degli infortuni tra questi lavoratori è più elevata che in edilizia. Comunque delle soluzioni intermedie sono possibili, e non è irrilevante se queste soluzioni si presentino come parte di un mercato del lavoro selvaggio o come aspetto limitato e marginale in un mercato del lavoro regolare. Nel secondo caso si tratta di eliminare le forme di lavoro intermittente a chiamata dove è evidente che viene negata ogni possibilità di miglioramento della propria condizione per un lavoratore inesorabilmente solo. Non è così per il rapporto di lavoro a progetto, ma la retribuzione non sarà come quella degli altri lavoratori dell’azienda in cui si va a lavorare perché dipenderà dalle tariffe degli artigiani operanti nello stesso territorio: ed allora cancelliamo questa possibilità e uno si iscrive all’albo degli artigiani. Anche per l’unico lavoro ripartito tra più persone esiste un dato di solitudine e di separazione dagli altri lavoratori. Già oggi, nelle imprese, i capi sanno sempre meno «spiegare come» fare un lavoro mentre sanno sempre di più «obbligare» a farlo. E il mobbing diventa malattia professionale. Un’impresa che non sa organizzare il lavoro con i rapporti di lavoro a tempo indeterminato è e sarà una impresa che pensa di sopravvivere solo riducendo costi e diritti. Abbiamo sotto gli occhi il declino degli imprenditori italiani e la loro sostituzione con i nuovi mercanti, a partire dal nostro capo di governo. Questo è il terzo terreno di lotta.
La lotta deve svilupparsi su più piani. Innanzitutto sul piano culturale e politico, ponendo al centro la libertà e la dignità di chi lavora e non soltanto l’aspetto della eccessiva precarietà del lavoro da contemperare con un reddito non a caso, a questo punto, chiamato di cittadinanza. Se il lavoro è solo una delle possibilità per campare mentre al suo rapporto con la natura e ai rapporti sociali che ne deriveranno ci penseranno altri, come sembra dirci la nuova carta europea, allora anche la sinistra sarà appannaggio dei ricchi. Credo che la Cgil, con la dichiarazione dello sciopero generale di due ore, abbia colto le nuove contraddizioni. E credo che i rinnovi dei contratti nazionali di lavoro non potranno ignorarle. Penso infine che chi ha promosso e sostenuto il referendum per l’estensione dell’art. 18 debba valorizzare il più importante risultato ottenuto, l’aver costruito in Italia una importante base di massa antiliberista. Che non va dispersa e ricondotta ai ranghi. Va invece riorganizzata una nuova fase di lotta di resistenza alla attuale mercificazione del lavoro progettando e realizzando nuovi territori liberati. Un’impresa, un comune, una provincia dove le norme più disumanizzanti del mercato del lavoro non vengono applicate sono i territori liberati. Si può tornare a mettere un cartello: «territorio deprecarizzato».