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Melfi, ecco perché si è inceppata la catena Fiat
Publie le martedì 27 aprile 2004 par Open-PublishingMILANO - Per un decennio ha funzionato senza particolari problemi. Poi,
improvvisamente, il modello Melfi si è inceppato. Tanto che una vertenza
sindacale squisitamente «locale», sul problema dei turni, ha messo in
ginocchio l’intera struttura produttiva della Fiat. Il bilancio di una
settimana di scontri tra azienda e sindacato, con tanto di proteste e
picchetti, è pesante: mancata produzione di oltre 16 mila vetture, altre
fabbriche del gruppo ferme o funzionanti a ritmi ridotti (ieri a Mirafiori
hanno lavorato soltanto le linee della Thesis, dell’Alfa 166 e della
Lybra), difficoltà nel rifornire la rete di vendita. Tutto questo in un
momento delicato per il settore dell’auto, da pochi mesi sotto la guida di
Herbert Demel, che sta faticosamente risalendo la china dopo una lunga
crisi.
Ma perché i guai di Melfi si stanno ripercuotendo sugli altri
impianti produttivi? Al di là degli scioperi di solidarietà, che pure ci
sono stati, il blocco deriva dalla situazione che si è venuta a creare a
Melfi nel corso dei suoi primi dieci anni di attività. E che non è
direttamente attribuibile alla Fiat. La spiegazione è semplice: le aziende
esterne fornitrici dello stabilimento lucano, che sono nate e si sono
sviluppate contestualmente ad esso, nel tempo hanno incominciato a produrre
anche per le altre fabbriche. Oggi sono 22 le imprese fornitrici della Fiat
insediate a Melfi, che danno lavoro a circa 3.200 persone. Un «indotto»
importante, messo in crisi dai blocchi di questi giorni, a causa dei quali
si è interrotto il rifornimento di componenti alle altre unità produttive,
da Cassino a Pomigliano d’Arco, da Termini Imerese a Torino.
Per Demel (e per Giuseppe Morchio, l’amministratore delegato della holding
autore del piano di risanamento dell’auto) è un brutto colpo.
Un intoppo
imprevisto esploso proprio nell’area di maggiore efficienza del gruppo. Dal
gennaio 1994, data di avvio della catena di montaggio della Punto, a oggi,
infatti, lo stabilimento lucano della Fiat è stato sempre considerato un
fiore all’occhiello per la casa torinese. Innovativo dal punto di vista
industriale e, in qualche misura, anche da quello delle relazioni
sindacali. Osservato con attenzione dalla concorrenza, studiato nei
dettagli dagli esperti di organizzazione del lavoro, il «nuovo modo di fare
l’automobile» introdotto a Melfi si è basato fin dall’inizio su tre
caratteristiche principali. La prima è la presenza dei fornitori nelle
immediate vicinanze della linea di montaggio; la seconda è il cosiddetto
just in time , cioè il meccanismo che permette di costruire direttamente le
vetture in funzione del cliente finale, abolendo di fatto il magazzino; il
terzo è l’organizzazione della fabbrica per squadre omogenee di operai e
tecnici, battezzata con la sigla Ute (Unità tecnologica elementare).
E’, quest’ultimo, l’aspetto che più ha rivoluzionato il concetto di
fabbricazione in serie. Nelle Ute, dove il capo si chiama coach e dove la
retribuzione è legata in parte ai risultati, si lavora su più turni per sei
giorni la settimana. «Uno scambio classico - disse all’epoca Tiziano Treu,
poi diventato ministro del Lavoro - tra flessibilità nelle mansioni e nella
retribuzione contro una maggiore partecipazione». Regole nuove,
inizialmente accettate da tutti, che hanno permesso alla Fiat di elevare
notevolmente il tasso di produttività del lavoro. Ma dopo dieci anni quel
patto ha mostrato qualche crepa. Anche a Melfi qualcosa si è incrinato
nelle relazioni sindacali tra azienda e lavoratori. E l’ex fabbrica
gioiello, dove si è arrivati a battere perfino i giapponesi in termini di
vetture prodotte per addetto, è diventata di colpo teatro di nuove
conflittualità.
Corriere della Sera