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Meno ferie per tutti. E spazio all’infelicità

Publie le domenica 9 maggio 2004 par Open-Publishing

Riforma della scuola. Riforma universitaria. Sono stati e sono molteplici i tentativi di rinnovare quello che è stato definito da alcuni un "sistema scolastico obsoleto", non "al passo con i tempi" e soprattutto del tutto inadatto alla competitività europea. Tentativi di ridurre il tempo di permanenza degli studenti all’università con il rischio di una perdita ingente calcolabile in "qualità del sapere" e con l’unico scopo, dichiarato peraltro, di immettere nel mercato laureati più giovani in grado di "battersi" con i loro colleghi europei. Marketing della cultura. E con quali risultati?

Tutto tende alla massima produttività, le forze si schierano in campo come si trattasse di una guerra (tanto su questo argomento l’Italia, purtroppo, ha molta consapevolezza pratica) e ci si dimentica dei sogni. Ci si dimentica dell’unico vero motivo che tiene in vita l’uomo, di un sentire interiore che, anche se non può essere inserito nell’elenco dei bisogni primari necessari alla sopravvivenza fisica, ne fa sicuramente parte. I sogni.

Scrivere milioni di articoli, poesie, romanzi che sicuramente per un buon 90% verranno cestinati. Stare sveglio di notte per imparare a memoria ogni comma del diritto privato. Provare e riprovare su un vecchio calzino a dare punti di sutura. Suonare uno strumento dieci ore al giorno. E malgrado tutto questo essere felici. Essere felici perché ti stai battendo per quello che sei. Per quello che vuoi diventare. Per quello che hai dentro. Per i tuoi sogni. E poi?

E poi dopo gli studi il mondo del lavoro. La giungla. Competitività. Produttività. Marketing. Rese dei conti che vivono nella realtà solo attraverso l’economia. E tutto quello in cui hai creduto scompare. Lentamente cancellato dal banale tentativo di un continuo superamento di sé stessi che ti permette, di conseguenza, di "battere" gli altri. La società ti costringe ad indirizzare le tue pulsioni primitive verso altro, condiziona i tuoi rapporti sociali, e chi ti era amico magari non lo è più perché se voleva sopravvivere doveva farti licenziare. Compromessi storici. Compromessi politici. Si scende così facilmente a patti con le proprie coscienze che non ci si domanda nemmeno più perché.

Ed intanto le statistiche dicono che in ufficio ci si ammala sempre di più di infelicità. Pareti spoglie, luci artificiali, capi e colleghi che restano per anni estranei, quando non diventano ostili; un lavoro distante anni luce dai desideri di un tempo, con la coscienza di uno stipendio che basterà a malapena ad arrivare a fine mese. Per sei italiani su dieci (63%) è così che si diventa infelici, complice l’incubo quotidiano dei tragitti fra casa e ufficio, al mattino, ma soprattutto la sera; nei mezzi pubblici e nelle auto ferme nel traffico. Risultato: l’impiegato supera casalinghe e pensionati nella classifica italiana dell’infelicità. Il quadro emerge da una ricerca del mensile ’Riza Psicosomatica’, che ha intervistato 898 italiani di età compresa tra i 18 e i 65 anni proprio sul tema della felicità. La rivista traccia l’identikit dell’infelice: il 56% sono donne contro il 44% uomini, di età compresa fra i 36 e i 45 anni, con un grado di istruzione alto o medio alto (60%), residente nell’hinterland delle grandi città, spesso senza figli. Secondo l’indagine, la professione più a rischio è quella dell’impiegato (27%), che supera quella della casalinga o del pensionato (20%), ma anche dell’operaio (14%), del disoccupato (13%), del commerciante (12%) o del libero professionista (5%). A far crescere insoddisfazione e infelicità, innanzitutto, spiegano i diretti interessati, i rapporti con il capo e con i colleghi (36%), spesso all’insegna del formalismo e dell’indifferenza; a questo si aggiunge uno stipendio regolarmente insufficiente ad arrivare a fine mese (35%) e un ambiente freddo e spoglio (31%).

Tra le cause anche l’obbligo di svolgere ogni giorno un lavoro ripetitivo e noioso (28%); della collocazione periferica degli uffici, difficili da raggiungere (25%); di una comunicazione che ormai avviene solo attraverso computer e posta elettronica (27%) e che, quindi, alimenta il senso di solitudine.

Solitudine dunque, informalità e rapporti sociali ridotti ad irrecuperabili buchi neri della comunicazione che aggiungono ad i sogni infranti l’inequivocabile difficoltà di non poter (o riuscire a ) condividere i propri problemi con altri esorcizzandone così la portata catastrofica. Ma dove sta il problema vero?

Mi rifiuto di accettare e stigmatizzare come vero il binomio lavoro-infelicità, sarebbe ottuso e riduttivo, almeno dal mio punto di vista. Parlare di diritti negati, di sogni infranti, però, è tutta un’altra cosa ed ha una valenza ed un’urgenza a mio parere molto più corpose. Non si tratta, infatti, solo di fatti come l’ipotizzata riduzione di ferie proposta dal governo o i contratti a termine che costringono la maggior parte dei giovani ad un frenetico invio di curriculum per essere assunti ogni tre mesi da un’azienda diversa, né di contratti Co. Co. Co. e nemmeno degli assistenti universitari borsisti ai quali non viene più rinnovata la borsa di studio e che si trovano ad agognare un concorso per ottenere la nomina di docente ordinario perché non ne vengono indetti a sufficienza dal ministero. O meglio. Si tratta di questo ma dietro c’è ben altro.

L’insoddisfazione deriva dall’inutilità. Deriva dalla logica del "non è mai abbastanza". Dal diffuso alone di sacralità che la società affida all’economia. Della serie: più lavori più desideri. Più desideri più compri. Più compri più spendi. E poi ti fermano per strada: "Grazie!!! Fai girare l’economia!!!" Come nell’ormai tristemente nota pubbilicità. E diminuisce lo spazio che ognuno di noi concede al sé stesso interiore. Ai propri desideri non materiali. A quello che vogliamo diventare. A come vorremmo cambiare il mondo. Ai sogni insomma, che forse sarebbero gli unici a meritarsi di "girare" e anche gli unici per cui la società dovrebbe ringraziarci. Belle parole utopiche? Retorica? Forse. Ma di sicuro stava molto meglio Aristotele che su questo poteva permettersi di scrivere.

[Alice, Redazione Cunegonda Italia]