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Non c’era bisogno dei due agguati di ieri. Non c’era bisogno del fallito attentato al generale
Chiarini, come delle vittime del 12 novembre, per sapere che le truppe italiane in Iraq sono in
missione di guerra, non di pace. Non sono solo rottami bahatisti e affiliati al terrorismo cannibale di
paranoia islamica che si ribellano. E non serve la prova tv per sapere che la tortura fa parte del
massacro.
Né c’è silenzio stampa che possa nascondere il fatto che sulla liberazione degli ostaggi
italiani va in scena una penosa pièce elettorale. Liberi subito per essere buttati in pasto
all’elettore, si conteggia sulla mano destra. Mentre sulla sinistra si calcola l’effetto - elettorale
più che umanitario - che potrebbe avere un voto del parlamento il cui esito è comunque la riconferma
della missione. Calcoli, e con una sola variabile: le elezioni del 13 giugno.
Per la prima volta si vota in guerra. Pare non piaccia, neppure ai peggiori, se è vero com’è vero
che la Casa delle libertà l’altro ieri ha votato insieme al centrosinistra la mozione che impegna
a promuovere l’inserimento dell’articolo 11 - quello stuprato che «ripudia» la guerra - della
Costituzione italiana in quella europea.
Calcoli, e con una sola variabile: il 13 giugno. Perciò Berlusconi alle sabbie mobili irachene
preferisce il patrio insurrezionalismo fiscale: in altri tempi si chiedeva l’oro per la patria, oggi
si offre oro per dimenticare la guerra.
Altrove Zapatero ha preso atto che non ci sarà un passaggio di controllo politico-militare da
parte degli Usa alle Nazioni unite; così dice Washington, conferma Kofi Annan e verbalizzerà una nuova
risoluzione, come la 1511 che ha posto agli atti la guerra illegittima. Perciò il premier spagnolo
ha disposto il ritiro delle truppe.
In Italia un non insignificante arco parlamentare sta cercando di spiegare che questa è la strada,
chiedendo di praticarla e disponendosi fino all’ultimo all’unità; disponibilità tanto più
apprezzabile quanto resa in stagione di semina delle bandierine elettorali. Ma le opposizioni riformiste
preferiscono nascondersi dietro i vetri dei palazzi, in nome di un malinteso senso di
responsabilità di governo che tiene conto dei governanti anziché dei governati. Lo pensa Romano Prodi; il
professore tanto avverso a questa guerra quanto convinto che dal tavolo negoziale non ci si possa mai
alzare, il presidente dell’Ue che ha dato il nulla osta alla violazione dei dati personali dei
propri concittadini imposta da oltreoceano. L’Europa di Prodi è un’idea; ma che esiste per
riconoscimento altrui, che non introdurrà l’articolo 11 nella propria Carta e che vuole sussumere nel
bipolarismo anche le vestigia del socialismo.
In nome di questo il listone sbarra la strada alla richiesta di rientro delle truppe. Farà bene
chi negherà al triciclo il proprio consenso. Ma faremmo bene anche a chiederci fin d’ora se il
riformismo permeato di governance di Prodi e Giuliano Amato, che ha innegabile cittadinanza nel
centrosinistra, possa altrettanto esprimere una guida unitaria verso una società progressista. O,
quantomeno, riformabile.
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