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Riflessione sul referendum

Publie le giovedì 19 giugno 2003 par Open-Publishing

Riprendiamo da un documento interno preparato dal Circolo Università per il dibattito nel CD della
federazione di Lecce la parte essenziale di valutazione del referendum, omettendo la maggior parte
dei riferimenti alla situazione locale, particolarmente deprimente, soprattutto per i risultati di
alcuni circoli guidati da membri "autorevoli" della segreteria o del direttivo e che si sono
attestati intorno all’11%, mentre alcuni circolo "eretici" hanno avuto risultati molto superiori alla
media provinciale. L’obiettivo del testo è quello di arginare una diffusa demoralizzazione, tanto
maggiore in quelli che hanno fatto poco o niente.

Prime riflessioni su una sconfitta onorevole

Una sconfitta, non imprevista. Avevamo sempre accentuato le analisi dei pericoli, e mai ceduto al
trionfalismo, e all’ottimismo infondato. Ma avevamo anche detto che le uniche battaglie che si
perdono sicuramente sono quelle che non si cominciano.
Eravamo preoccupati non solo per l’ostilità forte e faziosa della destra (che era ovvia) ma anche
della maggioranza del centro sinistra, con i suoi potenti bracci armati come "la Repubblica", e
anche per le esitazioni nel dar battaglia di alcuni che pure avevano avviato per primi la campagna
in difesa dell’art. 18. In primo luogo Cofferati, su cui avevamo espresso seri dubbi ben prima che
dichiarasse apertamente il suo atteggiamento per l’astensione. La segreteria della federazione ci
aveva attaccato ma non lo facevamo per un "pregiudizio" dovuto al suo passato di demolitore dei
diritti dei lavoratori (su cui non accennava tuttavia la minima autocritica), ma perché era evidente
la sua intenzione di capitalizzare sul terreno politico un prestigio accumulato negli ultimi mesi
prima di lasciare la CGIL con una denuncia forte ma priva di conseguenze pratiche.

Eravamo preoccupati per il ritardo con cui la CGIL anche dopo Cofferati ha preso posizione, sia
perché temevamo che alla fine non si schierasse (e ci sbagliavamo, su questo), sia e soprattutto
perché il ritardo impediva una forte e prolungata campagna di questa potente organizzazione, campagna
che c’è stata solo in alcune regioni e categorie, ma che ha visto non contrastate sacche di
resistenza soprattutto nel sud, dove i dirigenti della CGIL sono spesso funzionari paracadutati dai DS
in remunerativi posti di raccoglitori di quote di pensionati, o si spostano da un sindacato di
categoria all’altro senza nessuna partecipazione degli iscritti. La stessa FIOM, nel sud, spesso è ben
diversa da come è a Brescia o a Torino, e non solo - come è ovvio - per le dimensioni. Ma anche
nel nord (ad esempio a Milano) ci sono state fronde importanti alla decisione di votare sì.

Eravamo preoccupati e l’abbiamo detto e scritto, per le resistenze interne al partito: a livello
locale quelle dovute a un "analfabetismo politico" mai contrastato da un lavoro di formazione e
dibattito politico.
D’altra parte si era visto al momento della raccolta di firme che c’era uno scarto impressionante
tra i risultati buoni di pochi circoli e quelli miseri o del tutto negativi di altri, senza che si
affrontasse un dibattito sul perché circoli che avevano al loro interno dirigenti provinciali non
avevano raccolto una sola firma, e altri avevano trascurato perfino di procurare i documenti per
quelli raccolti da altri compagni nel loro comune. Ma non è l’unico aspetto del nostro operato come
federazione su cui non si è voluto fare un bilancio. E oggi non ci stupisce che Lecce sia
risultata il fanalino di coda della Puglia, con uno scarto nettissimo ad esempio con la provincia di
Brindisi, che pure non ha caratteristiche sociali molto diverse.

"Analfabetismo politico di ritorno", abbiamo detto per alcuni casi più gravi a cui ci riferivamo.
Precisiamo cosa intendiamo: si tratta di compagni che non leggono quasi mai "Liberazione", non
ricevono adeguati orientamenti nei dibattiti stanchi e vuoti dei comitati federali (spesso disertati,
per giunta) e si orientano solo leggendo i pessimi giornalucoli locali che li attirano per le
notiziole di cronaca politica e non, e soprattutto conversando ogni sera in piazza con i DS "Di
ritorno" diciamo, perché sono in genere compagni entrati nel PRC nel 1991 spesso per motivi
"sentimentali" (il cambio di nome) ma non hanno assimilato nulla della elaborazione "rifondataria" del
partito. Così, invece di premere sui DS per approfondirne le contraddizioni, hanno finito per essere del
tutto o in parte influenzati da loro. Ovviamente questi compagni non hanno fatto molto per il
"referendum di Bertinotti" (come l’hanno chiamato i nostri avversari), e molti circoli al massimo
hanno attaccato qualche manifesto e distribuito un po’ dello scarso e discutibilissimo (perché poco
efficace) materiale nazionale.

Ma le resistenze che ci preoccupavano di più erano quelle di settori dello stesso gruppo dirigente
nazionale del PRC (i cosiddetti "emendatari", a volte con l’aiuto della "mozione due"), che ad
esempio hanno spostato sul "problema di Cuba" un dibattito del CPN che doveva affrontare invece
l’orientamento del partito nell’ultima fase della campagna referendaria. Hanno sollecitato le nostalgie
di parte della base del partito per scagliarla contro Bertinotti, responsabile di aver criticato
le misure repressive decise da Castro, e di aver sollevato la questione dello stalinismo a Livorno
nel gennaio 2001 e poi al congresso.
Non vogliamo minimamente pensare a un loro intenzionale "boicottaggio" del referendum, ma ci ha
colpito che in un momento come questo, con un ritardo complessivo del partito nella mobilitazione,
questi compagni hanno preferito impegnare molte energie per organizzare le "proteste spontanee"
contro la presunta "censura" alla rubrica di Fulvio Grimaldi, o per tempestare "Liberazione" con
lettere che drammatizzavano in modo assurdo le divergenze nella redazione sulla sostituzione del
direttore del CdS (con una ridicola santificazione di De Bortoli, e analoga demonizzazione di Stefano
Folli). Non avevano di meglio da fare?

Questo contesto per certi aspetti era dunque perfino peggiore di quello in cui si perse nel 1985
il referendum contro l’abolizione della scala mobile (un quesito giustissimo e semplice) che fu
boicottato di fatto da parte del gruppo dirigente della CGIL (a partire dal vice segretario Ottaviano
Del Turco, apertamente contrario, ma con molte ambiguità dello stesso segretario generale Luciano
Lama) che pure lo aveva dovuto nominalmente accettare per le pressioni dei Consigli di Fabbrica
autoconvocati. Lo si perse non per mancanza del quorum (allora si andava ancora a votare per forza
d’inerzia) ma per l’insufficienza di una campagna capillare rivolta all’insieme della cittadinanza.

E allora perché tentare oggi?
Intanto i compagni dovrebbero ricordare che questi referendum erano in origine sei, e studiati in
modo di toccare anche altre sensibilità ambientaliste, mentre uno di essi (quello contro il
finanziamento pubblico alla scuola privata, realizzato tanto dal centro destra che dalle regioni di
centro sinistra) era già sicuramente maggioritario nel paese tra insegnanti e genitori, furibondi per
lo stato di abbandono in cui versa la scuola pubblica. È stata una sentenza squisitamente politica
della Corte Costituzionale, in cui è egemone il centrosinistra, a bloccare con pretesti
inconsistenti quattro referendum su sei, in modo di ridurre la confluenza nel voto di persone mosse da
preoccupazioni diverse ma convergenti. Con gli altri referendum, e in particolare quello sulla scuola,
raggiungere il quorum sarebbe stato meno difficile (per questo è stato cassato, non da Berlusconi
o Bossi, ma dai magistrati amici di Fassino e Rutelli).
Inoltre, come dicevamo, non ci sarebbe mai stata nessuna battaglia se si fosse aspettato di aver
la certezza di vincere. Ad esempio, non avremmo dovuto fare la campagna contro la guerra perché non
eravamo certi di riuscire a fermarla? Ed è forse stata inutile? A nostro parere assolutamente no.

Nella fase iniziale avevamo sollevato in un nostro "Controcorrente" un altro argomento: se
partendo da forze che in parlamento rappresentano molto meno del 10 % si ottiene un risultato del 20 o 30
% è solo in parte una sconfitta, ma un risultato che indica che in questa direzione bisogna andare
per rompere l’isolamento rispetto a un "inciucio" generale in cui destra e centrosinistra sono
indistinguibili e alimentano la disaffezione e l’astensionismo cronico. Di solito di questo sui media
non si parla, e non si danno cifre e nemmeno percentuali, ma nelle ultime elezioni provinciali che
il centrosinistra dice di aver "vinto", la percentuale dei votanti era del 49%. Ma lì non c’era
quorum!

La "santa alleanza" del centro sinistra col Polo di Berlusconi, Bossi e Fini ha avuto facilmente
partita vinta, in questo caso, perché bastava fare poca fatica per far saltare il quorum partendo
da un numero di votanti già in costante diminuzione spontanea e con in più l’incognita (con
aggiunti pasticci e brogli) del voto degli italiani all’estero.
Ma, ci si può dire, non si doveva prevedere anche questo? È vero, ma in primo luogo non era del
tutto scontato che, come erano state tirate dentro la CGIL, l’ARCI (pure strettamente intrecciata
anch’essa con la rete dei quadri dei DS) non si riuscisse a convincere il grosso di questo partito
(a parte i De Benedetti & C. che avevano addirittura anticipato le misure contro lo Statuto dei
Lavoratori prese poi da Berlusconi). Non a caso, nell’ultima fase, da Occhetto a Caldarola, da
Veltroni alla maggioranza dei redattori de "l’Unità, parecchi diessini si sono espressi (sia pure un po’
tardi ed evitando accuratamente di fare campagna) per il voto o anche per il sì. Casomai ci si può
domandare se non si poteva chiedere al centrosinistra qualche impegno preciso al momento di
concludere gli accordi in quelle città, province e regioni in cui il PRC era indispensabile per la
vittoria nelle amministrative...

Ora comunque, ed è una notizia curiosa e in fondo divertente, un po’ tutti (da destra ma anche dal
centrosinistra) se la prendono con Cofferati, accusato di aver cominciato tutto smuovendo le
acque... Vuoi vedere che alla fine si gioca anche la poltroncina di sindaco di Bologna?
Il centro destra intanto esulta e, con una grande faccia di bronzo, piange sui miliardi sprecati:
eppure bastava accorpare il referendum al primo o al massimo al secondo turno delle amministrative
e si sarebbe speso infinitamente meno. Li hanno fatti "sprecare" proprio loro, scegliendo l’ultima
domenica utile in pieno caldo estivo, per far fallire il quorum invitando ad andare al mare.

Preoccupati che sui referendum ci si possa ritornare (magari da parte di quei pazzi dei DS che, dopo
aver boicottato questo referendum concretissimo ne vorrebbero fare uno sulle leggi
"salva-Berlusconi") hanno già avanzato la proposta di portare a 1.000.000 il numero di firme necessarie...
Ma il dato dei quasi undici milioni di SI (che vuol dire che ben l’87% di quelli che hanno capito
di cosa si trattava ha votato SI) non è insignificante. Epifani anzi, in base a questo ha
rifiutato di definire una sconfitta il risultato: ci fa piacere, anche se forse si deve alla vecchia
abitudine della burocrazia sindacale di non ammettere mai di aver perso. Un numero di voti tanto più
grande di quello del PRC, dei verdi, ecc. messi insieme (e doppio rispetto a quelli degli iscritti
alla CGIL ha osservato Epifani) conferma le ragioni per cui destra e centrosinistra (e gli stessi
membri del Comitato per il No che avevano cominciato come Billiè organizzando in giro per l’Italia
i "No Day") hanno scelto di non invitare più al No, di tacere il più possibile e soprattutto di
fare appello all’astensione. Idem per Confindustria con i suoi sindacati "valletti", CISL e UIL, e
con il corteggio di Confcommercio, Confartigianato e simili carrozzoni.

Come per la guerra, "non abbiamo perso": conta la gente nuova contattata, le organizzazioni fino a
ieri moderate che si sono impegnate al nostro fianco, la possibilità di approfondire le
contraddizioni nei DS e nell’intero centro sinistra, e quella di promuovere, a partire dalle forze che si
sono impegnate fin dall’inizio per la raccolta di firme, e coinvolgendo chi si è unito
successivamente a noi, qualcosa che getti le basi della sinistra alternativa. Ci auguriamo che una proposta del
genere venga lanciata a livello nazionale.

È meno impossibile di ieri, a patto che non si facciano troppi piagnistei o recriminazioni, come
fanno abitualmente quelli che non sanno combinare il pessimismo della ragione con l’ottimismo della
volontà, e dopo ogni sconfitta parziale entrano in crisi profonda.

La redazione di Bandiera Rossa News