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Se si chiude il palazzo di giustizia
Magistratura La legittima difesa, Melfi, la tortura. E il giudice dimezzato
Ci sono fatti che, seppur apparentemente isolati, segnano pesantemente la
vicenda politica e le stesse regole di convivenza. Ne segnalo alcuni,
accaduti nei giorni scorsi nel nostro Paese, anche per cogliere il filo
che li lega ad alcuni mutamenti istituzionali in atto. 1. A Melfi, dopo
anni, la polizia è intervenuta pesantemente per disperdere i manifestanti
che presidiavano lo stabilimento Fiat durante lo sciopero e per «garantire
il diritto al lavoro di chi voleva entrare in fabbrica». Un conflitto
sociale delicato e complesso, determinato da una situazione risalente di
salari compressi e differenziati in negativo rispetto alle altre fabbriche
Fiat, di livelli anomali di intensità di lavoro, di controlli capillari
con sanzioni disciplinari crescenti è stato trasformato (o meglio, si è
tentato di trasformarlo) in questione di ordine pubblico da risolvere con
cariche e manganelli. Il metodo e il linguaggio ricordano in modo sinistro
gli anni 50. E sullo sfondo c'è la tendenza a condizionare dall'esterno
le dinamiche sindacali e a realizzare nuove politiche di ordine di
pubblico, sostituendo la logica del confronto con una concezione muscolare
dell'ordine (già evidente nella ostentata militarizzazione delle città in
occasione di qualunque manifestazione).
2. La tortura (orribile ferita ai corpi delle persone e alla dignità
umana) si è affacciata non solo come inevitabile e coerente appendice di
una guerra ingiusta ma anche come questione di politica interna e di
regolamentazione legislativa. Speravamo per bandirla definitivamente,
scrivendo a chiare lettere che l'integrità fisica e morale di chi si trova
sottoposto all'altrui autorità è un diritto fondamentale, incondizionato,
assoluto, intangibile. E, invece, un ramo del parlamento ne ha affermato
l'illegittimità solo se «reiterata» (sic!), così proclamandone, di fatto,
l'ammissibilità se praticata in un'unica occasione. Le leggi valgono,
spesso, a giustificare, ex post, le prassi. E siamo tuttora in attesa di
smentite alla notizia, pubblicata il 1ý dicembre 2003 dal Corriere della
sera, dell'uso, nelle indagini svolte in Irak dai carabinieri italiani
dopo l'attentato di Nassirya, di pratiche inumane e degradanti («nelle
indagini quattro persone sospette sono state fermate. La procedura seguita
dai carabinieri è quella imposta dagli Stati Uniti, che alla fine li hanno
presi in consegna: i quattro sono rimasti chiusi in una cella al buio,
inginocchiati, senza acqua né cibo, per quattro giorni. Una tecnica che
mira a far crollare i prigionieri e spesso li porta a confessare»).
3. La vita e l'incolumità fisica sono beni superiori, sul piano dei
valori, a quelli patrimoniali. È per questo che nella civiltà dei moderni
- e persino nel codice penale del fascismo - la difesa privata contro le
aggressioni altrui è considerata legittima solo se «dettata dalla
necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave
alla persona» e «sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo». È,
nel nostro sistema, una norma ferma e indiscussa da cent'anni. Ma nei
giorni scorsi il ministro della giustizia e la maggioranza parlamentare ne
hanno proposto e votato la modifica fino a parificare, sul piano dei
valori, beni e vita, sull'onda di una ossessione sicuritaria che già ha
portato a raddoppiare la popolazione carceraria (dai 25.804 detenuti del
31 dicembre 1990 ai 54.237 della stessa data del 2003), pur in una
situazione di costante diminuzione, dal 1991 ad oggi (e con una lieve
recrudescenza nell'ultimo anno), dell'andamento della criminalità.
Mesi fa, in una occasione sbagliata (le perquisizioni presso alcune
società calcistiche) ma con un, forse involontario, scatto di sincerità,
il presidente del consiglio ha dichiarato che «si va allegramente verso
uno stato di polizia...».
È in questo contesto che si collocano importanti mutamenti istituzionali.
Tra questi, la modifica dello status di giudici e pubblici ministeri in
discussione alla Camera e che ha determinato la proclamazione dello
sciopero dei magistrati. I contenuti della «riforma» sono noti:
trasformazione dei magistrati in burocrati selezionati con procedure
concorsuali e organizzati in modo gerarchico, separazione di fatto delle
carriere di giudici e pubblici ministeri, fine dell'azione penale diffusa
e ripristino del potere assoluto dei procuratori della Repubblica,
emarginazione del Consiglio superiore, introduzione di un controllo
politico sui magistrati mediante la previsione di ipotesi di
responsabilità disciplinare addirittura per l'attività interpretativa
sgradita. Ed è altrettanto noto l'obiettivo perseguito: far tornare la
magistratura ad essere, come negli anni
50 e `60, «un corpo burocratico
chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un "corpo separato"
dello Stato, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente
nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi
sociali subalterne ed avvertiva esso stesso queste medesime classi come
ostili» (Luigi Ferrajoli).
Tutto si tiene, occorre esserne consapevoli. L’indipendenza della
magistratura - lo sappiamo - non garantisce in modo meccanico giustizia,
libertà e uguaglianza per tutti; è, peraltro, una delle condizioni per
rendere possibile tale risultato. È per questo che la riforma
dell’ordinamento giudiziario (e il trasferimento di competenze e poteri
dalla giurisdizione all’amministrazione che ad essa si accompagna) non è
altro rispetto alle trasformazioni in atto sul piano sociale e politico.
V’è di ciò un’immagine nitida e drammatica: tra il 20 e il 22 luglio 2001
a Genova, mentre (in concomitanza con gravi quanto circoscritti atti di
vandalismo e devastazione nel corso delle manifestazioni contro il G8) si
apriva una nuova stagione nelle politiche di ordine pubblico, il palazzo
di giustizia era chiuso. C’erano, forse, alcuni pubblici ministeri
barricati nei loro uffici, ma per i cittadini, per gli avvocati, per i
giudici il palazzo era chiuso: in quei giorni Genova non aveva bisogno
della giustizia. È un’immagine che non vorremmo rivedere.