Home > Sul referendum

Sul referendum

Publie le venerdì 20 giugno 2003 par Open-Publishing

Dopo il referendum,
costruire l’opposizione sociale
per una nuova sinistra di classe

Quelle che seguono sono riflessioni a caldo dopo tre giorni di full-immersion nella valutazione
dei dati referendari, in diverse sedi di partito, con una discussione rapida tra alcuni compagni. Il
contributo dovrà tradursi nell’articolo introduttivo della rivista ERRE, per essere così a
disposizione di una discussione più generale, nel partito e nel movimento..

Non c’è dubbio che il referendum abbia rappresentato una sconfitta. Lo ha detto, forse troppo
seccamente, lo stesso Bertinotti. Il vero problema, però, non è soffermarsi al mero dato numerico o a
un’interpretazione funzionale a diversi progetti politici, quanto cogliere il significato
effettivo di questa sconfitta, analizzarne la provenienza, la collocazione nell’attuale fase politica e le
implicazioni per il futuro. Solo se si attua un ragionamento con questa prospettiva - sia sul
passato che sul futuro - si può dare un volto più definito ai "misteriosi" 11 milioni che,
contravvenendo alle indicazioni di tutti gli apparati nazionali - industriali, politici e, per due terzi,
sindacali - hanno approvato la nostra battaglia.

1.La sconfitta è l’effetto dei rapporti di forza sfavorevoli
Questa affermazione appare così scontata che finora, nei commenti e nelle valutazioni ascoltate,
ci si è sorvolato sopra (ma lo si è fatto anche in sede di previsione sul risultato: nessuno ha mai
ipotizzato una percentuale di affluenza al di sotto del 30%; ci tornereremo sopra). Eppure, il
nodo strategico è qui. Nel suo intervento in Direzione nazionale Gigi Malabarba ha efficacemente
ricordato alcune recenti sconfitte dei lavoratori: il contratto dei metalmeccanici che non si chiude;
la Fiat; migliaia di licenziamenti in diverse fabbriche; l’approvazione del "pacchetto Biagi", la
legge 30 e quindi una tornata di precarizzazione formidabile. Possiamo aggiungere, il cattivo
contratto del pubblico impiego, il passo indietro segnato dalle mobilitazioni per la scuola pubblica -
dopo una fase di grandi manifestazioni - ulteriori arretramenti su tanti altri settori nevralgici
ai fini dello scontro sociale. La stessa "astuzia" degli assistenti di volo Alitalia rappresenta
un segno della difficoltà a scioperare nel comparto dei trasporti. Insomma, dopo venti anni di
sconfitte i lavoratori non riescono a uscire da uno stato di minorità sociale e di arretramento e la
stessa azione della Cgil (che ha sì sostenuto il referendum ma con un impegno ridotto e,
soprattutto, senza modificare la linea concertativa), non ha certo aiutato a uscire da questa impasse. Per
non parlare dei Ds e, purtroppo, della difficoltà che incontra Rifondazione a invertire la
tendenza.

2.La sconfitta è l’ultima di un’onda lunga o la prima di una nuova fase di ricostruzione?
In questo contesto, però, 10 milioni e 500mila persone sono uscite di casa il 15 e il 16 giugno e
hanno deposto un Sì nell’urna. Ad alcuni questa dinamica può apparire consolatoria, ad altri
insufficiente, per molti in questi giorni è stata motivo di conforto. Bisogna invece analizzare questo
fenomeno per quello che è - e davvero ci servirebbe moltissimo una radiografia più "scientifica"
del voto - e provare a capire se la sconfitta è l’ultima di una serie molto lunga o se invece
indica qualcosa di nuovo. Questa domanda è forse quella decisiva. Se inscriviamo il voto del 15 giugno
nel triste calendario che scaturisce dalla sconfitta alla Fiat dell’80 o, quasi per consonanza,
dal referendum sulla scala mobile dell’85 costruiamo una serie storica imprecisa che non tiene conto
delle lotte recenti, del ciclo di mobilitazione del movimento, del ricambio generazionale in
fabbrica e di altri fattori ancora. Questo referendum sarebbe stato possibile qualche anno fa? Il
fronte che lo ha sostenuto avrebbe avuto la stessa credibilità e la spinta a lavorare?
In realtà è più probabile che il referendum sia solo la prima sconfitta di una fase in cui si sta
cercando faticosamente di risalire la china. Un’analisi dei referendum degli ultimi sette anni -
quasi sempre falliti, si badi bene - mostra che l’adesione ai quesiti referendari - cioè allo
sforzo fatto dai proponenti - si è attestato sempre intorno agli undici milioni. Nel 2000, nel
referendum per l’abolizione della quota proporzionale i Sì sono stati "solo" 11.637mila. Il risultato del
15 giugno non si discosta quindi dall’andamento di molti altri referendum. Ma a differenza di
tutti quelli, per la prima volta ha riproposto un contenuto di classe altamente qualificato. Si è
parlato di precarietà a livello di massa; qualche anno fa lo si faceva solo in pochi circoli politici
e sindacali. Il referendum, dunque, ha provato a invertire una tendenza e, alla luce del
risultato, ha registrato un dato sociale piuttosto che provocarlo. Il suo esito si colloca in una nuova
fase sociale che sconta tutta la negatività dei rapporti sociali, ma in cui è possibile, dopo molto
tempo, parlare di lotta alla precarietà, di estensione dei diritti, di antiliberismo. Per certi
versi, il risultato referendario è una sorta di misuratore del tasso di lotta di classe, un
coefficiente che registra la densità di resistenza alle politiche liberiste accresciuta, in questo caso,
dalla determinazione a estendere un diritto di base. Questo tasso è ancora basso, insufficiente. Sta
alla capacità di riprendere il conflitto, all’incisività dell’azione del nostro partito, a
un’attenta analisi su ruolo e natura del movimento, aumentare questo tasso, innanzitutto con un’azione
qualificata sul piano sociale che provi a incidere su quei rapporti di forza sfavorevoli.

3.I limiti del movimento e la coppia unità/radicalità
Sulla positività degli undici milioni di voto abbiamo già detto. Però tutti pensavamo a qualcosa
di più. Nessuno, ma proprio nessuno, ha mai pensato a un risultato inferiore al 30%. Su questo
occorrerà indagare ancora. Al momento possono essere utili due chiavi di interpretazione: il ruolo del
movimento e il funzionamento del meccanismo unità/radicalità.
Nel partito, e sui giornali, sta passando l’idea che il movimento abbia esaurito il suo ciclo. Lo
stesso dato referendario, mette in luce un voto che proviene principalmente dalle "zone rosse" dai
vecchi insediamenti di Ds e Prc (dunque dal Pci). Nulla, sembrerebbe, dal movimento. In realtà, le
cose sono più complesse e comunque difficili da verificare concretamente.
Per quanto riguarda il movimento c’è da dire che emerge con chiarezza quel limite che abbiamo più
volte cercato di indicare, spesso da soli: il movimento si muove su un’onda simbolica, di critica
etica all’esistente, aggrumandosi intorno agli eventi, ma senza tradursi in movimento quotidiano
con meccanismi di radicamento, di battaglia intorno a vertenze definite, senza obiettivi dichiarati
e senza programmare l’ottenimento di vittorie. E’ così da Genova, da dopo Genova, da Firenze, da
Porto Alegre. Oggi questa realtà viene a galla: nel voto del referendum, il "popolo dei social
forum" fa senza dubbio parte degli undicimilioni (così sembrebbe dall’affluenza più alta nelle grandi
città), ma non produce effetti a catena, non attiva legami forti sul territorio, sui posti di
lavoro, in altre sedi che permettano di "sfondare" sul resto della popolazione. Da questo punto di
vista c’è ancora molto da fare e il movimento, nella sua capacità di agire in profondità, di mettere
radici, gioca la propria sopravvivenza.
Inoltre, bisogna precisare limiti e inadeguatezze che spesso non appaiono evidenti:
a)Non abbiamo ancora riflettuto a fondo sull’esito della guerra e sugli effetti prodotti nel
movimento per la pace. Dopo la grande manifestazione del 15 febbraio, la guerra in Iraq si è fatta lo
stesso, anche se i fatti attuali ci danno ragione (non c’è pace in Medioriente). Però quella
vicenda deve aver avuto degli effetti sul "popolo della pace": effetti senz’altro contraddittori se da
un lato le bandiere rimangono appese ai balconi mentre, dall’altro, la guerra è scomparsa
dall’agenda politica.
b)Non siamo in presenza di un movimento come quello degli anni 70, forte socialmente, radicato in
fabbrica, dotato di grandi strumenti di massa (contestati, ma spesso utilizzati, come il
sindacato), inserito in un contesto "progressivo" della lotta di classe in cui la grande sconfitta storica
di fine secolo non si era ancora realizzata.
c)I movimenti, per storia e tradizione, non "depositano" voti. Non lo fanno quasi mai - negli
anni 70 la prima vittoria elettorale viene solo dopo sette anni dal ’68 e premia il Pci, non la
sinistra rivoluzionaria - per lo meno non è questo il loro compito principale. I movimenti
rappresentano la contestazione sistemica, aprono delle faglie, sono l’avvisaglia di una nuova istituzione
democratica, dotata di maggiore legittimità rispetto a quelle esistenti: alludono a un cambio di
società. Altrimenti sarebbero solo lobbies o massa di manovra da utilizzare per spericolate operazioni
politiciste.
d)In questo movimento i meccanismi di politicizzazione sono ancora in divenire. Un conto sono gli
attivisti più regolari, i militanti "storici", il volontariato diffuso, un altro è la dimensione
di massa. A questo livello non può non pesare la cesura storica con il novecento, il frutto di una
sconfitta di prospettiva storica. Il contesto che fino agli anni 80 teneva insieme movimenti e
politica, società e istituzioni, generazioni diverse, è saltato in aria e i soggetti sociali sono
molto più soli, fanno più fatica a riconoscersi l’un l’altro.
E’ qui che sta il merito principale del movimento antiglobalizzazione: aver permesso questo
riconoscimento, aver prodotto una sintesi che è sempre stata più alta della somma di tutti i fattori. E’
stato così a Genova, così a Firenze, così a Porto Alegre, è stato così il 15 febbraio e nella
lotta contro la guerra. Tutti eventi, però, che se non si misurano con la fatica del movimento
quotidiano rimarranno allo stato gassoso.
Diverso il problema del rapporto unità/radicalità. Questa è stata finora la cifra del lavoro di
movimento, in cui l’ampiezza delle forze e la nettezza dei contenuti hanno permesso la realizzazione
di avvenimenti di massa. Al referendum, è giusto riconoscerlo, è mancata l’unità. Questo dato,
però, non può essere imputato, come fa il manifesto ai promotori che, anzi, sono stati capaci di
aggregare via via nuove forze. Se il centrosinistra avesse colto l’opportunità di rivedere il segno
delle politiche liberiste condotte negli anni di governo, e avesse accettato di dare continuità a
quella convergenza realizzata sulla guerra, anche la battaglia referendaria avrebbe beneficiato
dell’effetto di traino prodotto dall’unità di forze tanto diverse, un fattore determinante nel
conferire credibilità alle battaglie. Ma forse, quel centrosinistra non sarebbe... l’attuale
centrosinistra.
Unità e radicalità sono senza dubbio la coppia vincente, almeno così ci ha mostrato il movimento.
Ma devono sempre stare insieme: non si può elidere la radicalità per impugnare la bandiera
dell’unità, come propongono i Ds, e l’Ulivo in generale, che in questo referendum hanno ribadito la loro
collocazione sociale schierandosi dalla parte di Confindustria. Da questo punto di vista il
referendum ha mostrato con nettezza una demarcazione tra lo schieramento di classe da una parte e gli
schieramenti politici dall’altra. Tra i due non c’è identificazione e questo dato rappresenta il
maggior elemento di squilibrio e di incertezza della politica italiana. Uno dei compiti futuri sarà
proprio quello di rimediare a questa distorsione e di ricostruire una sintonia tra i bisogni di
classe e i soggetti politici disposti a farsene carico.

4.Le prospettive politiche che si aprono dopo il referendum
Dall’ultima considerazione emergono le principali indicazioni di prospettiva politica.
Innanzitutto quella di ristabilire una connessione tra questione sociale e dimensione politica. Una delle
responsabilità più gravi dell’Ulivo e dei Ds non è tanto quella di essersi dichiarati contro il
referendum, ma di aver incitato alla non partecipazione, privilegiando l’autonomia del politico
rispetto a un contenuto sociale. E invece, la forza del referendum era proprio quella di trasferire nella
politica, provando a incidervi, la questione sociale. Per questo era potenzialmente lo sbocco
migliore di tre anni di movimento: utilizzando uno strumento ad alto contenuto partecipativo, il
movimento della partecipazione democratica poteva cambiare concretamente le condizioni di vita di
milioni di lavoratori e cittadini.

4.1 Priorità all’opposizione sociale
Questa connessione si stabilisce innanzitutto con la dovuta priorità all’opposizione sociale nel
paese in funzione di un’incidenza su quei rapporti di forza sfavorevoli. Da oggi i Comitati per il
Sì e le strutture esistenti di movimenti dovrebbero lavorare a una piattaforma comune contro il
governo. In questa piattaforma emergono almeno tre questioni centrali: l’opposizione alla legge 30 e
alla riforma del mercato del lavoro in nome di una inflessibile rigidità dei diritti contro
l’assoluta precarizzazione chiesta dai padroni e concessa dal governo; la difesa dello stato sociale,
qui e ora, raccogliendo l’analoga spinta europea; una battaglia per la difesa e l’estensione dei
diritti democratici, in primo luogo dei migranti come metro di misura di una società in cui la legge
e le regole siano uguali, ma davvero, per tutti e tutte.

4.2 Uno strumento contro la precarietà
La piattaforma però non basta, occorrono anche strumenti adeguati. I comitati per il sì, il tavolo
contro la precarietà del Fse, hanno rappresentato possibili luoghi in cui diverse soggettività,
sociali, sindacali, politiche, hanno unito le proprie forze in una lotta comune contro la
precarietà. La precarietà è oggi una cifra identificativa dello scontro di classe, è il progetto principe
del padronato, italiano e internazionale, che guadagnata la pace salariale tenta di riprendersi
anche i diritti fondamentali. Per questo abbiamo parlato di "precario-massa", per indicare una
condizione non riducibile a una particolare figura sociale, ma generalizzabile ed estesa a tutto il mondo
del (non)lavoro. Se esiste un nuovo proletariato, un nuovo movimento operaio, la sua lotta
fondativa è quella contro la precarizzazione della propria esistenza. Per questo è indispensabile il
sindacato, ma il sindacato non basta: occorre intervenire dentro e fuori la produzione, sul piano
delle lotte come su quello normativo, unendo figure diversissime tra loro. La forma può essere quella
della Rete in cui far convergere esperienze diverse con obiettivi comuni: il metodo del referendum
non può essere abbandonato, va invece ripreso e rilanciato.

4.3 No alla "fuga" nel centrosinistra
La questione sociale, l’azione sui rapporti di forza tra le classi, divengono quindi la vera
priorità politica di questa fase. L’opposizione sociale è lo strumento con cui misurare la capacità di
parlare al paese, di dare una prospettiva immediata a quegli undici milioni di votanti e di
permettere loro di agganciarsi a quelli che non hanno votato ma che sono permeabili da una battaglia per
i diritti. Se questa è la priorità, il rapporto con le forze del centrosinistra non può che essere
subordinato alla capacità di costruire un percorso di lotta, sul quale misurare divergenze e
convergenze. Non abbiamo dubbi sulla natura del centrosinistra, la cui direzione è prioritariamente
legata al riconoscimento del padronato, italiano e internazionale (da Confindustria al Fmi). Allo
stesso tempo sappiamo riconoscere il bisogno di unità che muove da ampissimi settori popolari ansiosi
di battere Berlusconi. Questa domanda chiede però unità e radicalità: l’unico modo per farla
vivere concretamente, fuori dalle segrete stanze delle alchimie politiche, è l’opposizione sociale, un
percorso credibile di lotte, sociali, sindacali e politiche. E’ questa la sfida che oggi va posta
al centrosinistra, ai movimenti, ai sindacati, alle forze antagoniste: realizzare l’unità delle
lotte attorno a piattaforme condivise. Solo lo sviluppo di questo percorso, e quindi l’adesione ai
bisogni popolari e di classe, può indicare le forme dell’alleanza che dovrà battere Berlusconi. Il
resto rischia di essere una fuga "politicista" funzionale a risolvere il problema della manovra
politica, ma poco utile a rafforzare il movimento e una prospettiva di alternativa. Per questo non
si può dire che la direzione di marcia è "l’accordo programmatico di governo con il
centrosinistra": perché così facendo si fa ombra sulla reale natura dell’Ulivo, si invertono le priorità e si
rischia di frenare una lotta sociale invischiandola sul terreno della tattica della politica
istituzionale.
Per dare gambe, sostanza ed efficacia all’opposizione politica e sociale al governo delle destre,
invece, si deve puntare al rafforzamento della convergenza con le diverse forze dello schieramento
referendario, coinvolgendole assieme ai movimenti in un confronto sui temi della declinazione
sociale dell’opposizione alla guerra e al liberismo, senza rischiare di "abbandonarle" velocemente,
dopo la sconfitta, per rivolgere le nostre attenzioni al centro-sinistra.

4.4 La sinistra alternativa, un nuovo soggetto politico
Ma dal referendum emerge anche un’altra indicazione. La scissione tra sociale e politico che ha
schiacciato una battaglia giusta nel cono d’ombra dello specialismo sindacale - e che caratterizza,
sotto altre forme, le vicende di questi anni di movimento - va ricomposta con una più ambiziosa
capacità progettuale. La debolezza, o piuttosto la deriva moderata, delle principali strutture del
movimento operaio, partiti e sindacati, fa si che le lotte siano più frammentate e disperse, ma
anche che facciano più fatica a sedimentarsi "politicamente", làddove per politico si intende la
comprensione della natura dello scontro di classe. E quindi si fa strada il doppio rischio del
risucchio istituzionale, in cui l’unico approdo possibile è divenire sinistra del centrosinistra e
dell’estremismo movimentista che fa della pratica dell’obiettivo l’unico elemento identitario,
scavalcando così il problema del consenso.
Questa difficoltà rimanda all’esistenza di un partito di classe che sia allo stesso tempo
riferimento politico, ma anche costruttore di lotte, di radicamento sociale, di una nuova vitalità
sociale, oggi rarefatta. E quindi rimanda alle difficoltà e alla debolezza di Rifondazione comunista. Lo
strumento oggi necessario per affrontare il problema deve prevedere una commistione tra il
politico, il sociale e il sindacale che gli strumenti del movimento operaio novecentesco hanno mantenuto
separati. E’ possibile che dall’esperienza referendaria e dalla vicenda del movimento degli ultimi
anni, emerga una soggettività siffatta che possa fungere da elemento di resistenza politica e di
ricomposizione sociale? Il nodo della sinistra alternativa ruota attorno a questo quesito.
Rifondazione comunista può mettere a disposizione la propria forza e il proprio contributo di idee e di
organizzazione per dare vita a una soggettività politica più ampia, che raccolga la disponibilità
manifestata da quegli undici milioni di Sì e che abbia la forza adeguata per cimentarsi nel duro
scontro di classe che attraversa l’Italia e l’Europa?

ERRE
Roma, 18 giugno 2003