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I vertici militari Usa insospettiti dall’alto numero di morti nel carcere
di Abu Ghraib avevano avviato un’inchiesta in autunno. Dopo l’orrore il
dubbio atroce: che fine hanno fatto le persone nelle foto?
Torture in Iraq, il Pentagono sapeva
Nel caos dell’immediato dopo-guerra il mandato dell’esercito Usa era
chiaro: proteggere a ogni costo il ministero del Petrolio e quel museo
degli orrori rappresentato dalla prigione di Abu Ghraib, il più grande
carcere del mondo arabo dove sono passati - e morti - decine di migliaia
di dissidenti. Le celle-pozzo di un metro per un metro, la camera a gas,
le camere di tortura costruite da Saddam Hussein quando era amico degli
americani - e quindi probabilmente con la consulenza degli esperti della
Cia - sono state prese in consegna dall’Us Army che ha subito avviato i
lavori di ristrutturazione. Mentre la popolazione rischiava il colera per
mancanza di acqua potabile, le celle dell’Abu Ghraib venivano rese «più
confortevoli delle case irachene» come ha dichiarato senza un briciolo
d’ironia il generale di brigata Janis Karpinski responsabile di quello e
delle altre 15 prigioni attualmente operanti nell’Iraq "liberato".
La Karpinski, che si trova ora sotto accusa insieme ai cinque torturatori
comparsi nelle foto mandate in onda dalla Cnn, ha subito dato l’avvio allo
scarica-barile sostenendo che i detenuti del braccio speciale, quelli
accusati di far parte della resistenza armata, dipendono direttamente
dalle unità dell’intellingence e dai loro contractor, aziende private come
la Caci International che hanno avuto in subappalto la gestione degli
interrogatori. La Karpiski ha aggiunto che comunque i detenuti speciali
sono un numero molto esiguo, ammettendo quindi che la maggior parte delle
persone rinchiuse nel famoso carcere sono civili rastrellati a caso dalle
forze di occupazione.
Il rapporto Taguba
La storia delle poche mele merce non regge. Del resto la Karpiski è stata
sospesa dal comando della 800° Military Police Brigate in gennaio, e non
certo perché aveva avuto la sfortuna di ritrovarsi cinque sadici nelle
proprie file. In realtà, i vertici militari statunitensi erano stati messi
in allarme dalla gran quantità di morti sospette avvenute nelle carceri
irachene ma, non riuscendo a ricavare notizie attendibili per vie
gerarchiche, in autunno hanno avviato un’indagine affidandola al generale
maggiore Antonio Taguba. Il rapporto Taguba, ultimato a febbraio, è stato
tenuto segreto fino ad aprile, quando il The New Yorker ha reso pubblico
lo scenario medioevale tratteggiato dal generale: un sistema carcerario al
collasso, una linea di comando frammentata e confusa dove i vertici
sembrano ormai avere perso il controllo dei corpi separati e dei gruppi
paramilitari mercenari che hanno licenza di uccidere, torturare o detenere
civili a tempo indeterminato.
Fra l’ottobre e il dicembre del 2003, Taguba ha riscontrato numerose
testimonianze che riferivano di «abusi sadici e criminali sistematici ad
Abu Ghraib» perpetrati da soldati del 372° Military Police Company, da
membri dei servizi segreti sia civili che militari e da contractor
privati. In particolare, il rapporto si sofferma su episodi in cui i
prigionieri «sono stati cosparsi di liquido fosforico o immersi nell’acqua
gelata, sono stati picchiati ripetutamente, privati del sonno e fatti
aggredire dai cani» oltre a venire sottoposti ad «abusi sessuali,
minacciati o perpetrati con bastoni o torce». Tutte accuse supportate da
numerosissime testimonianze e da una serie impressionante di fotografie e
di video girati dai soldati. Nel rapporto si sottolinea che nel
super-carcere è comunque consuetudine tenere i prigionieri completamente
nudi in celle prive di servizi igienici, tanto per "ammorbidirli" come
richiesto dai servizi che si occupano degli interrogatori veri e propri.
Una pratica, quella di usare i soldati comuni per "ammorbidire" i
prigionieri prima di consegnarli agli specialisti, inaugurata in
Afghanistan.
Un fenomeno esteso
Fino a questo momento il rapporto Taguba ha provocato soltanto una prima
audizione, alla quale non si è presentato nessuno dei venti testimoni
chiamati a deporre, più qualche "nota di demerito" che potrebbe finire nel
curriculum personale degli aguzzini. Tuttavia i vertici militari
statunitensi si dicono scandalizzati e hanno almeno avviato alcune
inchieste - una della Cia, una dell’esercito e una della riserva - per
fare luce sugli abusi. Ben diversa è stata invece la reazione dei vertici
dell’esercito britannico alla pubblicazione di analoghe fotografie da
parte del Mirror. I comandanti del Reggimento Lancashire, dove i
torturatori prestano servizio, hanno negato scandalizzati l’autenticità
delle foto che getterebbero un’ombra sulla gestione britannica - sedicente
illuminata - in quel di Bassora. La direzione del Mirror però ha respinto
decisamente l’accusa di avere pubblicato dei falsi, assicurando i lettori
di avere a disposizione centinaia di analoghe fotografie che, peraltro,
circolano da qualche mese in tutto il Medio Oriente, come può confermare
chi ha prestato servizio a Bassora e dintorni. Il soldato - per ora in
incognito - che ha fornito le foto al Mirror sostiene che le autorità
militari sono perfettamente al corrente sia degli abusi che
dell’abbondante materiale fotografico visto che sottopongono i bagagli
delle truppe di ritorno dal fronte a perquisizioni accurate. La maggior
parte delle foto gli sono state sequestrate proprio in quell’occasione.
Sia gli alti ufficiali britannici che quelli statunitensi si dicono
estremamente preoccupati dalla circolazione delle immagini, che potrebbero
– giustamente - aumentare il risentimento della popolazione irachena.
Nessuno però sembra preoccuparsi della sorte degli esseri umani ritratti
nelle fotografie. Che fine hanno fatto quelle persone?
Stabilirlo è quasi impossibile visto che buona parte dei detenuti in
entrata nelle carceri irachene non viene registrata e perfino i generali
responsabili dei penitenziari - come Janis Karpiski - sostengono di non
essere a conoscenza del loro numero esatto. Si può dire però che alcuni di
loro certamente non denunceranno mai i loro aguzzini. Come i due corpi
avvolti nel cellophane che compaiono al margine di una delle fotografie
del rapporto Taguba, che ritrae una stanza con le pareti sporche di
sangue. Nello stesso rapporto vengono riportate numerose testimonianze di
militari, complici o meno delle torture, che parlano di frequenti
"incidenti" per eccesso di zelo. Il sergente Frederick, uno degli uomini
ritratti nelle foto scattate ad Abu Ghraib, sostiene di avere
personalmente assistito a uno di questi incidenti: «L’hanno interrogato
così duramente che quello c’è rimasto. A quel punto l’hanno messo in un
bodybag e hanno aspettato il medico. Quello è arrivato, ha compilato il
certificato di morte falso e si è portato via il corpo». Altre
testimonianze parlano di cadaveri buttati giù dai camion in corsa di
notte, subito fuori Baghdad, ma nessuno si è ancora dato la pena di
confrontare questi racconti con il numero di prigionieri nudi e
incappucciati - ovviamente solo quelli registrati in entrata - che
risultano «uccisi mentre tentavano la fuga o per legittima difesa».