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Uno stralcio della prefazione al libro di Luisa Morgantini "Oltre la danza macabra"

Publie le sabato 8 maggio 2004 par Open-Publishing

Pagine d’amore per la pace

Ci sono delle donne nel nostro Paese che, se non vivessimo in un clima di stupida distrazione, presi da stupidi modelli femminili basati sulla pura seduzione del corpo, sarebbero carissime alle nuove generazioni sempre in cerca di figure femminili in cui identificarsi. Luisa Morgantini è una di queste donne: generosa, determinata e coraggiosa, da anni persegue, incalza, diffonde le ragioni della pace, contro tutte le guerre, contro tutte le discriminazioni, contro tutte le prepotenze dei più forti nei riguardi dei più deboli.

Questi brevi scritti raccolti oggi in volume tracciano il percorso di una cocciuta, intensa attività che tende a intralciare il cammino insensato dei signori delle guerre, a qualsiasi Paese appartengano. Da anni, fra le altre cose, Luisa partecipa ai ricorrenti incontri tra israeliane e palestinesi, le cosiddette "Donne in nero", che affrontano insieme le forze di polizia e dell’esercito con il solo corpo vestito di nero, dimostrando che la convivenza fra popoli vicini e diversi è possibile, nonostante le differenze religiose e politiche, purché si rispetti l’altro e non si compiano atti di arroganza e di ingiustizia.

Non bisogna pensare però che la scrittura di Luisa Morgantini sia solo politica. L’aridità dimostrativa, l’astrazione polemica non le appartengono. La sua immaginazione, sempre morbida, sempre amorevole, si sofferma volentieri sui dettagli più minuziosi e realistici, anche quando vuole dimostrare una tesi. Prendiamo per esempio uno scritto che racconta degli olivi palestinesi. Nei frettolosi articoli di giornali, tanto legati alle azioni violente, si parla molto poco di quello che tiene unite e solidali molte donne, sia che appartengano a paesi africani in guerra fra di loro, sia che come le israeliane e le palestinesi, vivano in zone di bombe umane e di mortai. Donne che pur sapendo quello che succede da una parte e dall’altra delle frontiere, sfidano l’accusa di tradimento, per trovare insieme una soluzione alla guerra.

"Anche gli olivi soffrono", scrive Luisa Morgantini, narrando teneramente della raccolta che è stata fermata dalle proibizioni insensate dell’esercito israeliano in Palestina, e le olive cascano per terra e si raggrinziscono e muoiono prima di poter essere raccolte e spremute. «La mia amica Hagar Roublev, donna in nero israeliana, da sempre impegnata contro l’occupazione, il giorno prima della sua morte, a Paros in Grecia, mi diceva: "Che bello essere in un Paese e guardare gli ulivi, senza pensare a una povera contadina palestinese che vede i suoi alberi sradicati dai soldati o dai coloni israeliani"». E questo detto da una irachena che, pur amando la sua religione e la sua terra, non credeva che la pace potesse mettere radici senza giustizia e la giustizia consiste nel riconoscere l’altro e lasciargli lo spazio per vivere e lavorare.

«Ogni volta che vedo un fucile alzato, rabbrividisco - scrive Luisa - il linciaggio dei due soldati israeliani è stato atroce e anche la distruzione della Tomba di Giuseppe, non solo perché luogo sacro ma perché parte della storia dell’architettura palestinese. Di fronte a ciò però l’autorità palestinese ha chiesto scusa, ha detto che punirà i colpevoli ed è già ricominciata la ricostruzione della tomba. Non ho mai sentito Barak o altri dirigenti chiedere scusa o assumersi qualche responsabilità, neanche di fronte al massacro di Sabra e Chatila, di cui Sharon è stato il mandante».

Insomma, quello che spesso offende di più è l’arroganza di chi si crede superiore perché dispone di armi sofisticate e denaro, mentre dall’altra parte c’è la disperazione di chi si fa saltare in aria crudelmente uccidendo con se stesso il più gran numero possibile di innocenti. Ma alle vendette e alle stragi reciproche non c’è rimedio se non nel dialogo e nella pace. Ed è proprio per perseguire questa pace che le donne in nero si scrivono, si incontrano, prendono comuni iniziative per convincere i loro Paesi a ragionare secondo umanità, senza arroccarsi su posizioni prevenute e intolleranti.

Ma voglio soffermarmi su un altro articolo, chiamato "Pane e anguria a Diyarbakir". Anche qui la durezza degli eventi ricordati viene continuamente mescolata al racconto degli incontri con persone precise, alla descrizione delle piccole gioie vissute insieme. Si tratta di un appuntamento con degli ex detenuti curdi che nelle prigioni del Kurdistan turco hanno subito la tortura e tanta umiliazione. Molti ci hanno lasciato la pelle, alcuni si sono suicidati, altri non si sa come, hanno resistito e pur uscendone tramortiti, si mostrano desiderosi di vivere.

Leggendo l’articolo pieno di notizie, di fatti brutali, ma anche di una attenzione gentile e riguardosa verso i gesti della vita di tutti i giorni, mi viene da pensare che potrebbe essere proprio questo che distingue la scrittura di una donna: quando narra non dimentica che le parole nascono da un corpo preciso, con forme e colori riconoscibili, da occhi che hanno visto, mani che hanno toccato, bocche che hanno conosciuto sapori e gusti diversi. Luisa Morgantini scrive i suoi pezzi di indignazione, di esortazione, di testimonianza, partendo dalla vita ordinaria, dai gesti di tutti i giorni, che narrano storie di persone conosciute durante i suoi continui pellegrinaggi di pace, non trascurando di descrivere il pane che essi le offrono, le magre olive che la esortano a mangiare seduti in cerchio, gli stracci dagli odori di fumo che portano addosso, le scarpe impolverate che li accompagnano nei lunghi percorsi sulle montagne.

La politica, quando diventa pura teoria, pura ideologia, pura strategia, finisce per perdere di vista l’essere umano. Si parla di bombe, di ordigni, di progetti letali, di confini, di guerre, di diritti e di doveri scritti sulle carte, e si dimentica che dietro a queste carte ci sono delle persone vive che hanno affetti, gusti, desideri, sogni e paure. In questi sogni e paure poi le persone sono molto più simili fra loro, amici e nemici che siano, di quanto vogliano far credere. Luisa non si appaga di osservare l’uomo chiuso nella sua ideologia, ma lo vede com’è, nudo e impaurito dentro i vestiti sudati, gelido nella sua obbedienza dietro una divisa militare, vede la donna che cucina, che partorisce, che si china sul focolare fumoso; si accorge quando due occhi che hanno visto la tortura, tornano a scintillare di voglia di vivere, quando due mani che hanno stretto un fucile, si chinano a raccogliere un’anguria dolce che conserva nel suo ventre chiuso il sapore del sole che l’ha covata per giorni e giorni.

E’ quello che succede al giovane Nizar un curdo che, a diciannove anni, esce dal campo turco di Ansar dopo essere stato torturato, tanto magro da apparire moribondo, ma "non aveva perso lo splendore dello sguardo", commenta Luisa e lo osserva mentre si porta alla bocca con fare dignitoso una mezza anguria scaldata dal sole.