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Violenza nonviolenza: mistificanti i paragoni con vietnam e resistenza
Publie le giovedì 22 gennaio 2004 par Open-PublishingMistificanti i riferimenti
al Vietnam e alla Resistenza
In questo dibattito di grande livello, non per caso "nobilitato" dagli
interventi di Pietro Ingrao, si discute anche della sorte politica del
movimento. La sua divisione, abbiamo più volte detto, è obiettivo che molti
si sono dati in questi anni e che tutti abbiamo contribuito a respingere, a
partire dalla denuncia dell’uso manipolativo della categoria "buoni" e
"cattivi". Proprio per questo ho avvertito un sovrappiù nell’intervento a
quattro firme uscito qualche giorno fa come se la sua priorità fosse, prima
che la discussione di merito, una "delimitazione di campo". Una scelta
singolare e non proficua. Tanto più in un dibattito come questo, dove non a
caso, io credo, lo stesso segretario di un partito interviene in prima
persona, non per solitudine o per sovrapposizione, ma per rispondere ad una
esigenza di interrogarsi anche in proprio e fuori dai contesti ravvicinati
della battaglia politica più immediata. Anche per evitare qualsiasi rischio
di sovrapporre dinamiche di partito, e interne ai partiti, al movimento. E
per accompagnare la riflessione stessa del movimento che è in corso
collettivamente e in modo impegnato.
Il merito dell’articolo di Casarini, Cannavò, Bernocchi e Bersani mi pare
un po’ "antico", "conservatore", non all’altezza della rottura operata dal
movimento stesso. Certo c’è sempre il rischio di banalizzare le posizioni
altrui ma ciò che non mi convince non è l’articolazione prospettata tra
forme varie assunte in contesti diversi dalle pratiche violente, ma la
contestazione della spirale guerra-terrorismo come fenomeno tipico di
questa fase che opera concretamente per annichilire la politica e in
particolare contro il soggetto che sta in campo, per reinverare la politica
stessa, e cioè il movimento.
Qui non sono proprio d’accordo. Se non vediamo
che la guerra e il terrorismo nell’era della globalizzazione sono altro da
ciò che sono stati nel ’900, non vediamo il nuovo e cioè il carattere
sovrastante delle nuove forme di dominio imperiali e fondamentaliste,
capitalistiche e religiose, portatrici di un conflitto devastante tra
"modernità barbarica" e "barbarica modernità". E inseguono una vecchia
lettura statualistica dei conflitti che crede ancora centrare la politica
nel suo avvalersi della forza e non coglie l’assolutizzarsi della forza
come distruzione della politica.
E’ questo elemento del tutto nuovo che rende mistificanti i riferimenti a
epoche passate, dal Vietnam alla Resistenza. Non è la comprensione di
questa novità, come si afferma nel testo di Cannavò e degli altri compagni,
a far "interiorizzare" il punto di vista della strategia della guerra
preventiva e permanente al punto da non saper più articolare i giudizi e
percepire le diversità che permangono nelle pratiche della forza, ma al
contrario è la sottovalutazione della sua portata ad impedire la rottura
necessaria a non essere manipolati o sussunti nell’agire.
Nel mondo ci sono tanti conflitti aperti, come è sempre stato, ma il punto
è che ce ne è uno, la spirale guerra-terrorismo che esprime la crisi della
globalizzazione nel suo portato storico potenziale, cioè il suo essere
crisi della modernità tout court nelle sue forme storicamente costituite,
assolutizzando la forza contro la politica in quanto considera questa
ultima non praticabile e in nome non più di idee condivise di progresso ma
di una visione assolutizzante di un "bene" assunto come categoria del
dominio.
E’ questo prevalente reale, e non la sua interiorizzazione psicologistica,
che bisogna evitare che sussuma tutto il resto. Che non vi sia alcuna
interiorrizzazione psicologistica è evidente nei comportamenti politici del
Movimento e di tutti noi che, appunto, lungi da farsi dividere tra buoni e
cattivi e incorporare l’equivalenza totalizzante, dal terrorismo alla
disobbedienza, troviamo l’unità nel massimo di radicalità del contrasto
disobbediente alla guerra e nel massimo di garantismo rispetto alle
pratiche, sapendo leggere le dinamiche concrete dei conflitti e delle
piazze e le asimmetrie tra potere e di chi vi si oppone. Sapendo però che
quella spirale c’è e che non ne saremo garantiti agendo, come nel ’900,
nella pura contraddizione dei poteri in lotta, ma dispiegando l’altro mondo
possibile.
Intendiamoci, anche nel ’900, questo altro mondo si era dichiarato con il
movimento operaio ma si era poi consegnato a una dinamica statuale, quella
sovietica, che aveva garantito equilibri ma anche imprigionato l’istanza di
cambiamento. Qui la discussione si fa più su di noi stessi. Perché, io
penso, che non solo "l’oggettivo" ci porta a pratiche del tutto nuove, come
quelle nel rapporto con la forza e ciò che essa significa, ma anche il
"soggettivo". E anzi, che la rivoluzione come forma storicamente nuova di
modernità sia proprio un reincontro tra oggettività e soggettività come mai
c’è stato, così come tra umanità e natura. Ce ne parlano il femminismo e
l’ambientalismo. Nessuno mette in discussione la Resistenza e il Vietnam,
di cui siamo tutti figli e figlie, ma oggi posso dire, che ciò che andava
fatto allora, l’uso della forza, vorrei non fosse necessario vogliamo
comunque interrogarci su come la categoria della forza abbia potuto
deformare soprattutto nelle sue pratiche statuali, quella istanza di
liberazione di cui ero e voglio essere portatrice?
C’è in questo, tanto del
nuovo movimento, dal valore di tutte le persone, al suo carattere
orizzontale che rifiuta quella verticalizzazione che è già violenza. E c’è
una dimensione collettiva e insieme individuale. Io sono per le pratiche
radicali ma, ancora più come donna, vorrei poter contemperare pratiche per
me gestibili e rivendicabili, non per aver interiorizzato la repressione o
per sfuggirla, ma perché mi consentono di esprimermi in modi inequivocabili
senza lasciarmi attraversare da categorie altrui di cui voglio liberarmi.
Non è una discussione facile, anzi molto difficile, come è a volte
liberarsi dal passato, in un presente difficile, ma guardando al futuro.
da liberazione