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ancora sugli ostaggi italiani in iraq

Publie le mercoledì 19 maggio 2004 par Open-Publishing

BAGHDAD
Ostaggi: Strada lascia l’Iraq, il dialogo continua
Agliana, Cupertino, Stefio stanno bene, ma la liberazione è rinviata. Cronaca di diciotto giorni di «trattative»
Ancora prigionieri Sulla sorte dei tre ostaggi italiani ha pesato l’intensificazione della guerra e la politica del governo italiano
VAURO
BAGHDAD
Ieri la delegazione di Emergency guidata da Gino Strada ha lasciato l’Iraq per far rientro in Italia. E’ presto per fare un bilancio e ancora di più per trarre delle conclusioni sull’esito del tentativo di Strada di raggiungere un risultato positivo nella vicenda dei tre italiani prigionieri in Iraq. I canali di comunicazione che si sono aperti in questi giorni, grazie soprattutto al credito che Emergency si è conquistata con i nove anni di presenza attiva e solidale nel paese, restano aperti. Così come restano in Iraq i responsabili locali della organizzazione che continueranno a seguirli. In questi diciassette giorni di incontri, incominciati ad Amman con Jabbar Al Kubaisi, tre in differenti alberghi della città nei due giorni che la delegazione vi ha trascorso prima di raggiungere Baghdad, non si è mai intavolata una trattativa nel senso comune del termine, ma si è sempre tentato di trasmettere un messaggio. Quello che risparmiare tre vite non sarebbe un segno di resa né di debolezza verso un governo e una forza straniera occupante, ma al contrario un segnale di civiltà, di apertura e sostegno rivolto ai milioni di italiani che si sono opposti e che continuano a opporsi a questa guerra ed alla partecipazione delle truppe italiane alla occupazione dell’Iraq. Un messaggio non semplice da far recepire nel contesto di violenza e sopraffazione del diritto nel quale la guerra e l’occupazione militare hanno sprofondato tutta la popolazione del paese. Eppure il messaggio è passato, la catena di intermediari della quale Ibrahim Al Kubaisi, il medico fratello di Jabbar, ha rappresentato il secondo anello, una volta giunta la delegazione a Baghdad, si è fatta via via sempre più corta fino a raggiungere direttamente referenti, se non appartenenti, sicuramente in stretto contatto con il gruppo o i gruppi che detengono i tre italiani. Le informazioni che uno di loro portava a Strada, nel susseguirsi degli incontri che si svolgevano nel piccolo albergo periferico di Baghdad dove alloggiava la delegazione, si facevano progressivamente più precise e dettagliate. Sia riguardo alle rassicurazioni sullo stato di salute e sul trattamento riservato ai tre prigionieri, sia al fatto che gli stessi sarebbero stati informati della presenza in Iraq della delegazione di Emergency. Così come si faceva sempre più franca l’esposizione delle difficoltà, prima tra tutte quella comportata dal fatto che, a differenza degli ostaggi giapponesi liberati circa un mese fa, i tre italiani erano armati al momento della cattura e vengono perciò considerati dei combattenti, degli occupanti, e come le continue dichiarazioni di Berlusconi di incondizionata amicizia a Bush e di ribadita volontà di non ritirare le truppe dall’Iraq rappresentino una sfida contro l’ipotesi di un gesto di disponibilità. Rendendo perciò di primaria importanza la richiesta di garanzia che una eventuale liberazione dei tre prigionieri non fosse in alcun modo ascrivibile a persone o enti legati al governo o all’esercito italiano.

Ci sono stati giorni nei quali Omar (nome fittizio dell’intermediatore con il gruppo dei miliziani) esprimeva, con il nervosismo di alcuni suoi gesti, preoccupazione e anche una certa paura di essere seguito negli infiniti spostamenti ai quali era costretto per incontrare i membri della guerriglia, con i quali ovviamente i contatti erano verbali, avvenivano di persona, e la delegazione chiusa nell’hotel. In molti e da diverse parti avevano e hanno interesse a far saltare il ponte di comunicazione che è stato costruito. Ma poco prima del precipitare complessivo della situazione irachena, con l’orrore suscitato dalle immagini delle torture, con gli attacchi ai luoghi sacri da Kerbala a Najaf, fino al coinvolgimento diretto delle truppe italiane negli scontri a Nassiriya, sembrava che una soluzione positiva al problema dei tre prigionieri fosse vicinissima. Anche Omar appariva più disteso ed ottimista, convinto lui stesso della validità del messaggio di cui era latore e la delegazione di Emergency, spostatasi nel frattempo a Sulimanya per motivi di sicurezza, viveva l’attesa carica di tensione di un segnale definitivo. Strada poteva così offrire una timida scintilla di speranza in più ai familiari dei tre italiani, con i quali è sempre rimasto in contatto telefonico.

Poi la degenerazione rapidissima, che in questi ultimi giorni ha coinvolto tutto il paese in una escalation di violenza, ha fatto sì che alla decisione, che sembrerebbe già presa e al momento attuale è stata riconfermata, di arrivare alla liberazione dei tre prigionieri, non si aggiungesse una definizione precisa dei tempi, ma dilazioni continue. Probabilmente dovute da un lato all’acuirsi di una certa competizione politica che caratterizza le relazioni tra i diversi gruppi della resistenza irachena e dall’altro al comprensibile aumento delle difficoltà logistiche nell’attuare la liberazione in un territorio teatro di continui conflitti armati. Così si è arrivati alla decisione di far ripartire la delegazione dall’Iraq.

«Quello che abbiamo tentato di fare e che continuiamo a tentare per Cupertino, Agliana e Stefio - dice il fondatore di Emergency - lo avremmo fatto per chiunque. Provare a salvare vite umane per noi è un dovere etico e pratico, sia che siano minacciate dalle ferite che la guerra infligge ai corpi, avere carne e ossa lacerate e rotte dalle schegge di qualche missile intelligente è una tortura non meno atroce di quelle che hanno scioccato l’opinione pubblica in questi giorni, sia che siano minacciate dall’odio e dallo spirito di vendetta che la guerra alimenta negli uomini che la fanno e che la subiscono». Ma resta qualche amarezza, in questo viaggio di ritorno: «L’amarezza e la rabbia di sempre quando continui a vedere intorno a te il carico enorme di sofferenze che la stupidità della guerra provoca in tante persone e l’ottusità colpevole di chi non vi si oppone di chi ne tesse l’elogio politico, di chi addirittura insiste nel parteciparvi con uomini ed armi. Ma c’è anche l’ottimismo che mi viene dall’aver di nuovo verificato che la via del dialogo, della solidarietà e del rispetto non è solo quella più giusta, ma è l’unica percorribile».

da "il manifesto" 19.5.04 articolo di Vauro