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Amianto. Una biografia operaia

Publie le mercoledì 16 giugno 2010 par Open-Publishing

Amianto. Una biografia operaia

di Alberto Prunetti

1. Ma che freddo fa

Questa è la storia di uno che si chiamava come me ed era nato nel giorno in cui io sono nato, eppure non sono io. È una storia che comincia con una canzone di Nada. È il 1969, siamo alla fine dei favolosi anni Sessanta e al Cardellino di Castiglioncello Nada Malanina, reduce dal festival di Sanremo, ha appena cantato “Ma che freddo fa”. La fotografano circondata da ammiratori e camerieri. Accanto a lei c’è un ragazzo. È il cameriere più alto, uno magro che somiglia vagamente a Jean Paul Belmondo. Nada ha 16 anni, lui ventiquattro. Lui è Renato, il protagonista di questa storia che comincia con la colonna sonora degli anni Sessanta e finisce con una vittima uccisa lentamente. Se fosse un noir, sarebbe uno di quelli in cui si capisce subito il nome dell’assassino. Una storia di morti bianche, con un colpevole circondato da indizi e tanti complici che negano le sue responsabilità. Senza lieto fine: la minaccia è ancora attorno a noi, libera, pronta a colpire, un killer silenzioso protetto da una legione di medici, ingegneri, consulenti della previdenza, industriali.

Ma procediamo con calma, dai giorni felici. Renato è giovane ma di cartellini ne ha già timbrati tanti: ha smesso di studiare a quattordici anni, prima ha fatto il bagnino, poi il cameriere. Adesso, 1969, fa il doppio lavoro: tuta blu in fabbrica di giorno, alla Solvay, e papillon con giacca la sera, cameriere al Cardellino. Come Nada, Renato è cresciuto tra Rosignano Solvay, il Gabbro, Castiglioncello e la strada tortuosa del Romito, quella che da Quercianella porta a Livorno lungo la scogliera, quella resa famosa da “Il Sorpasso”, dove Gassman esce di strada nel film di Risi. Lavorare ai tavoli dopo la fabbrica forse è un diversivo per provare a ingannare il destino. È assunto in un locale alla moda e si diverte. Passano di lì, dal Cardellino, i nomi della musica leggera italiana, quella che sta rivoluzionando il costume, con le minigonne e i remake del pop-rock anglosassone. La fabbrica è lontana, per una sera, e Nada è vicina. Renato sorride, sa che con quella foto farà morire d’invidia i suoi amici.

Finisce l’estate e l’autunno del ’69 si fa caldo. Renato si toglie la giacca e il papillon per indossare esclusivamente la tuta blu o verde dei metalmeccanici.
La fabbrica è il suo destino. In fondo, la Solvay è il destino della sua famiglia. Suo padre è un muratore e la città-fabbrica lo ha sradicato dalle Colline Metallifere, in quel lembo di terra, boschi di leccio sopra e pirite sotto il suolo, dove le provincie di Grosseto, Livorno e Pisa si toccano. Lavora come muratore, Santi, quando il lavoro lo strappa da Casale Marittimo. In realtà le sue origini si perdono tra i colli di forteto che circondano Pomarance (PI). Ancora miniere e geotermia, terra che ospita gli insediamenti industriali della Montecatini, la regina madre dell’industria chimica di quegli anni. Soffioni boraciferi, pirite. Estrazioni che accumulano manodopera, minatori da infilare in casermoni dove le famiglie si stringono nei letti. Per costruire nuove case, da Pomarance Santi sposta la famiglia prima a Casale Marittimo e poi a Rosignano Solvay, la città che si è sviluppata attorno allo stabilimento industriale del magnate belga Ernest Solvay. Un uomo che sogna una città attorno alla sua fabbrica, una città di dipendenti, un villaggio operaio all’inglese con case in mattoncini marroni tutte uguali, con attività ricreative, giardini, dove il legame di dipendenza tra la grande madre fabbrica e i piccoli nuclei familiari dei lavoratori siano espressi anche dall’architettura. Ormai la spinta a costruire sul modello edilizio di Manchester è finita, ma c’è ancora bisogno di mani che trasformino il salgemma in bicarbonato, e servono tetti per quelle mani. Per costruire le case degli operai, ogni giorno in bicicletta Santi macina chilometri. Fino a quando non si stanca e decide di andare a vivere anche lui sul mare, in un appartamento in un casermone popolare, via Lungomare, perennemente flagellato dalle libecciate. Questi sono ancora gli anni Cinquanta.
A Solvay Santi si porta dietro tutta la famiglia. Renato è il primo dei quattro fratelli e non ci mette troppo a finire le scuole e a cominciare il lavoro. L’abbiamo già detto: bagnino, cameriere, poi in fabbrica, “la Fabbrica”, quella che ha dato il nome alla città, stravolgendone il toponimo e il paesaggio.

Alla Solvay Renato non si accontenta di fare l’operaio non specializzato, quello che sta otto ore al giorno attaccato alla catena. Affina le sue capacità, se la cava bene come saldatore, sta sempre con gli occhiali con le lenti affumicate sulla fronte, anche quando non salda. Si muove, chiede, trova nuovi incarichi. Alla fine, passerà la sua vita girando gli stabilimenti chimici di quasi tutta Italia, come saldatore-tubista. Girerà tutto lo stivale, toccando mille città. Ma non conoscerà mai i centri storici. Lui, quelli come lui, si fermano nelle periferie, dormono negli alberghetti per operai che sorgono appena fuori dai cantieri, a Novara, a Torino, a Genova, a La Spezia, a Mestre, a Terni, a Taranto. Ovunque, sempre alla periferia. Respirerà benzene, il piombo gli entrerà nella ossa, il titanio gli intaserà i pori, una scaglia d’amianto si infilerà nei suoi polmoni. Ma questo molti anni dopo. Perché se fosse successo subito, Renato non avrebbe potuto incontrare Francesca in una discoteca di Follonica, non si sarebbe sposato, e queste pagine non le avrebbe scritte nessuno, perché le scrivo io, che di Renato sono il figlio. (continua)

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