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Sulle tariffe dei servizi pubblici si arricchisce il capitalismo straccione italiano
di Redazione Contropiano
Tenere basso, bassissimo il costo del lavoro nelle fabbriche e nei servizi, prosperare sui profitti sicuri che provengono dai servizi di pubblica utilità, dai titoli di stato o dal credito a strozzo. Il capitalismo italiano non ha mai voluto correre rischi. Sono “prenditori” e non imprenditori. Ma per i lavoratori e le famiglie la situazione non è più sopportabile, anche quando non c’era la crisi.
“Nelle privatizzazioni nazionali, come ha denunciato la Corte dei Conti, i profitti delle utilities si sono appoggiati “sull’aumento delle tariffe più che su recuperi di efficienza”; a livello locale una dinamica simile si è accesa per sostenere i conti del sistema ente locale (comuni e gestori)”. Non avremmo potuto usare parole più chiare di questo passaggio del Sole 24 Ore per denunciare quella che rimane la caratteristica principale del capitalismo italiano.
Nel nostro paese la lotta di classe dal basso verso l’alto, da circa un ventennio fa i conti con innumerevoli difficoltà, mentre quella che viene praticata dall’alto verso il basso segna sicuramente dei livelli molto alti di determinazione. Non solo. La crisi finanziaria ed economica di questi anni vede anche un conflitto da interpretare tra le varie “frazioni” della borghesia italiana molto utile per capire le dinamiche in atto. Il nostro capitalismo infatti nei decenni post bellici ha seguito le evoluzioni generali dell’occidente, ma ha sempre avuto sue peculiari caratteristiche che hanno contribuito a generare la situazione attuale.
Le famiglie della grande borghesia nazionale da tempo hanno avviato processi di internazionalizzazione che con la crisi si accentuano in cerca di mercati più ampi e di costi del lavoro più contenuti. La scelta della FIAT di chiudere Termini Imerese rifiutando gli incentivi governativi e puntando sul mercato degli Stati Uniti non è un episodio specifico ma il sintomo di una situazione in evoluzione. Così come lo sono i processi di finanziarizzazione in cui sono coinvolte le grandi imprese e che ci mostrano le difficoltà di valorizzazione che incontra il nostro grande capitale.
Poi ci sono altri elementi che dimostrano la continuità dei processi di deindustrializzazione e finanziarizzazione che indeboliscono il ruolo della nostra borghesia nella Unione Europea. La vendita di Telecom alla consorella spagnola o l’imbroglio fatto sull’Alitalia, che cadrà inevitabilmente nei prossimi anni nelle mani di Air France, evidenziano il ruolo”minimo” che il nostro grande capitale industriale ricopre nella costruzione del futuro Europeo.
Non è, d’altra parte, un caso che i processi di finanziarizzazione coincidano invece con uno sviluppo delle nostre principali banche che sono proiettate oltre i confini. L’Unicredit e Intesa San Paolo si muovono infatti su uno scenario europeo con una posizione indipendente verso lo stesso governo Berlusconi. Significativa è stata la vicenda dell’emissione dei Tremonti Bonds finalizzati a sostenere le banche nei momenti più neri della crisi finanziaria tra il 2008 ed il 2009. A questo sostegno, peraltro limitato, hanno aderito solo tre piccole banche ed il Monte dei Paschi di Siena.
Le grandi banche hanno preferito contare sulle proprie forze nonostante che le loro esposizioni finanziarie verso i paesi esteri, ed in particolare dell’Europa dell’Est, siano una spina nel fianco di non poco conto per la loro stabilità finanziaria.
Tra le prime quaranta società italiane quotate in Borsa, spicca la prevalenza di società la cui attività principale è quella finanziaria e quella delle utilities (servizi pubblici), una attività in cui il rischio è ridotto a niente e che assicura profitti certi attraverso le bollette pagate da milioni di famiglie, i conti correnti o i rifornimenti di benzina alla pompa. Coloro che invocano le liberalizzazioni nel settore dei servizi pubblici, nella distribuzione dei carburanti e nel credito sanno benissimo di aver solo sostituito i monopoli pubblici con quelli privati. I risultati sul piano sociale sono drammaticamente evidenti.
Un capitalismo “bollettaro” e speculativo
Composizione settoriale delle prime 40 società quotate nelle Borse
Italia Francia Germania Stati Uniti
Finanza 35% 18% 18% 16%
Servizi p. utilità 24% 22% 19% 5%
Petrolifero 20% 15% - 14%
Beni e servizi 11% 23% 24% 19%
Beni industriali 9% 12% 14% 8%
Tecnologia 2% - 6% 28%
Materiali di base - 2% 15% -
Farmaceutica - 8% 4% 11%
(elaborazione di dati Factsect)
Un’altra frazione della nostra borghesia “profitta” infatti sui processi di privatizzazione dei servizi pubblici, realizzati in particolare dai governi di centro sinistra, mostrando il suo carattere parassitario tanto da poter essere definito come un capitalismo “bollettaro”. Vedi ad esempio Benetton con le Autostrade o le privatizzazioni dei servizi che producono profitti agli azionisti privati grazie all’aumento delle bollette del gas, della luce, dei trasporti, dell’energia elettrica, delle comunicazioni, etc. ed in prospettiva anche dell’acqua.
Gli aumenti delle tariffe dei servizi comunali
Tariffa
Aumento medio 2004-2009
Rifiuti
29,1%
Acqua
26,4 %
Asili nido
12,3%
Trasporti
11,4%
(fonte Ifel, in Sole 24 Ore del 1 marzo 2010)
In quest’ambito ricadono anche le politiche delle grandi opere e degli appalti in generale che alimentano questa borghesia parassitaria incapace di competere a livello internazionale e dunque europeo. La corruzione che caratterizza tanto la nostra vita politico istituzionale nasce proprio dal carattere assistito di cui usufruiscono i nostri “capitani d’industria”, coraggiosi come li definì D’Alema, che non sono ricattati dai politici ma sono i corruttori di un sistema politico piegato alla incapacità della borghesia nostrana di fare il suo “dovere” storico.
Infine come battitore libero, unico ma non isolato, c’è l’imprenditore Berlusconi sfuggito agli arresti di tangentopoli nei primi anni ’90 che è riuscito a mettere in piedi un blocco sociale composto dalle piccole imprese in difficoltà, da settori di borghesia professionale e piccola borghesia, da settori di economia criminale e ampi settori popolari e di lavoro dipendente sia al Sud che al Nord, compattati dal ceto politico ex DC e PSI con l’aggiunta della Lega, che è stato un capolavoro politico e culturale sottovalutato dall’arroganza dal gruppo dirigente ex PCI ormai divenuto incapace di leggere la società Italiana.
Dietro questa descrizione sommaria della nostra borghesia, delle sue articolazioni e dei suoi conflitti interni, c’è però una trama unitaria che sostiene questo impianto distorto del capitalismo nostrano che è il ruolo dello Stato. Questo si è modificato nell’ultimo trentennio ma ha mantenuto e rafforzato la sua funzione di sostegno al grande capitale monopolistico. Sostegno che c’è stato alle grandi imprese nel momento della esternalizzazione e delocalizzazione, nella cooptazione dei gruppi dirigenti del movimento operaio dei partiti e dei sindacati, nelle privatizzazioni e nei processi di centralizzazione delle grandi banche.
Anche il governo del quasi monopolista Berlusconi non è che un lascito della vecchia gestione della politica. Per sostegno però non si intende solo quello strettamente economico ma anche quello legislativo, culturale, politico istituzionale, che ha permesso la riproduzione del sistema complessivamente inteso ma anche delle sue caratteristiche di arretratezza che il nostro paese si trascina nel tempo.
Sui servizi pubblici locali la posta in gioco è molto alta
Con l’approvazione del decreto del ministro Ronchi su pressione dei poteri forti dell’Unione Europea, si vogliono privatizzare non solo l’acqua ma tutti i servizi pubblici locali (rifiuti, trasporti, riscossione tributi etc). Si tratta di servizi essenziali alla popolazione che i “prenditori” privati intendono arraffare e vendere a peso d’oro (come già accade nel settore dei rifiuti). Con questo decreto il governo e le amministrazioni comunali regalano servizi e profitti a privati senza alcun vantaggio per la popolazione e le società municipalizzate che li gestiscono le quali vengono avviate verso la dismissione.
Società municipalizzate
Ricavi economici
Lavoratori occupati
711
102,4 mld di euro
240.000
Emerge con evidenza come, nonostante i Comuni (di destra o di “sinistra”) siano ovunque azionisti di maggioranza nelle principali società municipalizzate già sottoposte a processi di privatizzazione, gli incassi che ne ricavano – e che quindi vengono destinati alla collettività - siano solo meno di ¼ di quelli che vanno ai soggetti privati (multinazionali come Suez, Veolia e prenditori come Caltagirone, Intesa-Sanpaolo etc.)
I nuovi monopoli dei servizi pubblici locali
Società
Capitalizzazione di mercato (mln.)
Soci pubblici
Quota% possesso dei soci pubblici
Incasso per i comuni (mln)
A2A
3.979
Comuni MI e BR
55%
991
Hera
1.599
Bo,Mo,Fo,Fe,Ra
59%
521
Acea
1.509
Comune di Roma
51%
336
Iride
959
Comuni To, Ge
59%
269
Enia
566
Comuni RE,Pr,Pc
63%
187
Acegas-Aps
212
Comuni TR e PD
63%
70
Totale
9.110 mln di euro
2,373 mln. euro
Un altro caso emblematico questo capitalismo speculativo e bollettaro, quasi di tipo medioevale, è il sistema di riscossione dei tributi dove, grazie alla legge Bassanini, gli enti locali e gli enti pubblici hanno messo in piedi un sistema estorsivo e privatistico (anche quando è gestito da società pubbliche) che sta mettendo in ginocchio milioni di persone in tutto il paese e soprattutto nelle grandi aree metropolitane, dove il caos organizzativo viene fatto pagare ai cittadini con sanzioni aggiuntive astronomiche, ipoteche e forme coercitive scandalose.
Gli sceriffi di Nottingham
Mappa del sistema di esazione dei tributi
Comuni che si servono di Equitalia
4.637
Comuni che si servono di società private
4.000
Comuni che utilizzano società a prevalenza pubblica
14
Società di riscossione tributi in province e comuni
111
(di cui appartenenti a Equitalia)
21
Giro d’affari annuale della riscossione tributi
20 mld. euro
Le conseguenze politiche e sociali
Occorre approfondire seriamente questa analisi della nostra ampia ed articolata “borghesia”, nel frattempo è bene mettere in evidenza alcuni effetti rilevanti che vengono prodotti sui settori sociali, che vanno dal lavoro dipendente “garantito” a quello del precariato fino a settori di lavoro autonomo e di piccola borghesia.
Il sostegno dello Stato ai processi di esternalizzazione e privatizzazione attuati a tutti i livelli del mondo produttivo, nell’industria e nei servizi privati e pubblici, ha prodotto una disgregazione sociale fortissima in linea con i processi mondiali di ristrutturazione. Da noi questa polverizzazione è stata accentuata dalla politica di concertazione che, di fatto, negli ultimi venti anni ha smontato tutti quei “corpi intermedi” come sindacati, associazionismo, cooperative etc., che erano un cemento sociale ed il punto di unione tra il partito e la società concreta, eliminando così la base materiale di ogni possibile coscienza democratica dei diritti e della solidarietà sociale.
Oggi questi effetti disgregativi si moltiplicano a causa della trasformazione della crisi finanziaria in crisi sociale tramite la riorganizzazione produttiva che produce l’aumento dello sfruttamento e la riduzione del reddito dei settori sociali subalterni.
Questo disarmo politico, oltre che sociale, è il terreno di cultura del berlusconismo, infatti la presenza di un tessuto sociale disgregato e orfano di identità porta inevitabilmente alla ricerca del “capo”, cioè di colui che da certezze ed identità. Che questo non sia l’effetto malefico di una persona ma una condizione sociale pervasiva lo dimostra anche la vicenda di Vendola in Puglia dove la sua vittoria contro gli apparati del “partito”, una volta invincibili, è stata interpretata come quella dell’uomo salvifico della sinistra, interpretazione che sappiamo bene essere molto lontana dalla realtà ma che ha contagiato ampiamente gli elettori di sinistra e comunisti.
E’ per questi motivi che riteniamo urgente mettere mano ad una ampia piattaforma sociale di lotta che soprattutto sulla questione delle tariffe e del reddito nelle grandi aree metropolitane riapra un conflitto a tutto campo capace di ricomporre figure sociali proletarie e neoproletarizzate oggi disgregate. I discorsi sul ritorno al territorio non possono certo limitarsi ai volantinaggi o ai mercatini solidali, il problema è rimettere mano all’organizzazione dei settori sociali su una piattaforma anticapitalista.
* dal nr.2/2010 di Contropiano