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Di Patrick Karlsen
Com’è goffo il dibattito pubblico. Arriva sempre tardi. Di volta
in volta è tonto o presuntuoso o ipocrita: scopre l’acqua calda, grida allo scandalo
o al prodigio. Chi lo alimenta, come chi ne segue le nervose ondulazioni, non
fa mai una eccelsa figura, in termini di elevatezza o di onestà intellettuale.
Può accadere così che le torture della guerra irakena scatenino un putiferio.
Solo loro e solo adesso. Materiale simile l’Occidente lo fabbrica quotidianamente,
ogni giorno ne avrebbe a sufficienza per mettersi in croce, e ricavare di sé un’immagine
meno autocompiaciuta, meno prolissa. Esportare la democrazia: un’età ubriaca
di marketing non poteva che coniare quest’espressione atroce. Già in
tempo di pace atroci sono le nostre tecniche di vendita. In tempo di guerra è atroce
il prezzo che imponiamo. La merce stessa ha le sue falle. Esportati da noi in
Irak sono tanti lutti, non si sa cos’altro di durevole.
Che la violenza – ben prima di trasformarsi in tortura – sia degradazione, che la degradazione sia uguale ovunque, noi occidentali, che dite?, dovremmo esserne edotti: a Guantanamo come nelle carceri baathiste, in qualunque caserma del mondo, nei centri d’accoglienza per immigrati… Cosa c’è allora di davvero dirompente e speciale nelle torture compiute dall’«asse del Bene»? C’è che portano allo scoperto la tragedia della nostra arroganza, si è detto, e poi che hanno visto protagonista una donna. Quest’ultimo aspetto equivarrebbe all’acme dell’umiliazione per un musulmano. Si è detto e scritto che nulla avrebbe potuto dare di noi un’apparenza più odiosa, più corrotta, secondo i canoni della sensibilità islamica. E che nulla avremmo potuto fare di più autolesionista.
In ciò c’è qualcosa di vero. Ma anche d’impreciso, e forse di banale. La questione contiene valenze ulteriori e diverse. Agli occhi dei fondamentalisti musulmani è indubbio che la nostra civiltà appaia marcia, senza più valori, perduta. Altrettanto indubbio è che uno dei paletti cruciali della condanna ruoti attorno alla condizione
della donna. Condizione: è il termine che va riempito di significato. Qual è l’elemento di questa condizione che indigna e scandalizza la visione fondamentalista, quello che ha a che vedere più da vicino con la nostra presunta depravazione? Quello che mette in scacco noi stessi, quello che scandalizza noi stessi. O che dovrebbe farlo. È l’uso pubblico che viene fatto del corpo della donna; la sua perdita totale di «sacralità»; la sua nudità pubblicizzata, resa veicolo di commercio, sovraesposta a livelli ossessivi nella televisione, nei media in generale.
La ripulsa fondamentalista punta il dito su un nervo scabroso dell’Occidente. Su un suo fallimento smagliante: non aver prodotto un’emancipazione femminile «pulita», non aver decantato la rappresentazione delle donne dalla loro valenza di oggetto
sessuale. La nostra cultura occidentale, deliziata da tutte le sue glorie di egualitarismo e razionalità, non ha saputo liberare le sue donne da un così misero retaggio. Sono dunque entrate nella sfera pubblica, ma con i loro corpi, soprattutto con i loro corpi.
Da questo osservatorio, scorgiamo tutta la precarietà del nostro «progresso»: il lato critico della nostra «modernizzazione». La quale è stata – come dire – certamente economica, materiale, tecnologica; e che però resta minata da un deficit non risolto di conquiste spirituali, compromessa da una gigantesca zona d’ombra che ricopre la metà intera dei suoi «beneficiari». Probabilmente, in ciò paghiamo lo scotto di una secolarizzazione lasciata al mercato, colata sulla testa dell’Occidente con i suoi grumi di edonismo e di pornografia. In ogni caso il disprezzo fondamentalista attinge molto da qui. Non solo, cioè, dall’emancipazione femminile in sé e per sé, che peraltro non è fenomeno incompatibile a priori con la sensibilità islamica (sempre stupende le foto delle ragazze
in minigonna a Kabul negli anni sessanta), o almeno, lo è per l’Islam nella misura in cui lo è – e lo è stato – per il Cattolicesimo. Gli integralisti musulmani, di quell’emancipazione, odiano soprattutto la devianza, il sottoprodotto più basso, cui non siamo riusciti a sottrarci.
Insomma, in Occidente abbiamo la coscienza tutt’altro che pulita, in fatto di donne e sesso. Proprio per questo motivo la militare americana, che si prende gioco dei genitali di un prigioniero, e la reazione del mondo islamico, non possono non farci sentire chiamati in causa, ci lasciano balbettanti nei nostri sensi di colpa. E per questo motivo – è un colpo di scena – il
moralismo fondamentalista ha risvegliato il nostro moralismo, d’eredità cattolica, lo ha riportato a galla in un sussulto d’orgoglio, come per autodifesa. Il buon, vecchio, caro moralismo, che vuole un atto impuro essere ancora più impuro se commesso da una donna; che oggi fa serpeggiare nel non-detto di tanti commenti, nel privato di tante coscienze, il sospetto che una tortura sia ancora più umiliante se inflitta da una donna.
In ciò il moralismo parla l’esperanto: il nostro combacia perfettamente con quello dei fondamentalisti. È una
trappola della logica e della morale, che affratella entrambe le culture, che attiene all’inconscio maschile di entrambi i mondi. Il gesto penoso della militare, allora, ha questo di davvero speciale e dirompente: ha mostrato la scandalosa contiguità della pornografia e del burqa.
24.05.2004
Collettivo Bellaciao