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EUTANASIA DI UNA NAZIONE

Publie le giovedì 10 giugno 2010 par Open-Publishing
4 commenti

E così, zitti zitti, hanno portato la pensione di vecchiaia a 70 anni e quella d’anzianità oltre i 66 anni [1], andando ben oltre ogni altro Paese europeo.

Il provvedimento, a grandi linee, interessa chi è nato dopo il 1955 ed inciderà sempre di più con l’avanzare dell’anno di nascita: l’avevano annunciato da tempo che l’età della pensione sarebbe stata “collegata” con l’aspettativa di vita.

E, con questa bella pensata, siamo i primi a raggiungere la fatidica “quota 70”: per vostra conoscenza, i regimi pensionistici europei (vedi nota [2]) sono tuttora orientati verso questi valori di età legale per la pensione:

Francia: 60 anni, con riduzioni per i lavori usuranti e possibilità di prosecuzione fino a 65.

Germania: 65 anni, con pensione d’anzianità a 63 ed a 60 (con riduzione dell’assegno) per chi ha avuto periodi di disoccupazione;
Spagna: 61 anni e 30 di contribuzione, 60 anni per chi ha iniziato a lavorare prima del 1967.

Non prendiamo in considerazione sistemi pensionistici come quello inglese – che prevede un’età massima di 70 anni già oggi – oppure quello svedese – che si basa più sugli anni di cittadinanza piuttosto che su quelli di contribuzione – perché sono strutturalmente molto diversi dal nostro. In quei casi, l’età di pensionamento non è comparabile con la nostra, giacché le condizioni sono molto diverse e ci sono più variabili e possibilità per il lavoratore.
Francia, Germania e Spagna hanno invece una struttura simile alla nostra, perciò sono utili per capire lo “sfregio” che l’attuale governo sta per fare: non mettono le mani nelle tasche degli italiani – nelle loro ed in quelle del 10% di ricconi che li sostiene meno che mai – semplicemente, porteranno via letteralmente la vita al rimanente 90%. Anche quelle dei fessacchiotti che sgobbano e poi li votano: spiacente, ma è così.

Prima di proseguire, vorrei precisare che chi scrive non è minimamente toccato dalle attuali “novità” in campo pensionistico: questo per sgombrare il campo da possibili “conflitti d’interesse”.

Il sistema pensionistico italiano è quello, fra quelli europei, che destina percentualmente meno risorse all’uopo, mentre la gestione previdenziale dell’INPS era in attivo per un miliardo l’anno già prima della controriforma Damiano del 2007 (quando c’è da massacrare i lavoratori, sedicenti destre e sinistre trovano accordi “miracolosi”), e di ben 17 miliardi l’anno dopo l’intervento del “Mazzarino” del centro-sinistra.

Non sono ancora disponibili stime precise sui “risparmi” che porterà la Sacconi-Tremonti ma, prendendo come base l’incremento dell’attivo dalla Dini alla Damiano, è facile capire che faranno un ricco “bottino”.

Ci sono, a questo punto, due punti da chiarire:

a) Se vi siano serie basi demografiche, sociologiche, storiche, scientifiche od etiche per un simile provvedimento;

b) Le vere motivazioni della riforma Sacconi-Tremonti.

L’incremento della vita media che c’è stato nell’ultimo mezzo secolo non è da imputare a mutazioni genetiche: semplicemente, una serie di “accidenti” che prima troncavano la vita anzitempo, con l’incremento della protezione sanitaria sono stati debellati.

Possiamo ascrivere a questi interventi della medicina una serie di malattie od incidenti che un tempo conducevano a morte quasi certa (ad esempio tetano, morsicature di vipere, emorragie, meningite, tifo, colera, ecc) ed una serie di malattie un tempo mortali (polmonite, broncopolmonite, infezioni varie, TBC, ecc) che oggi sono debellate o tenute a bada con gli antibiotici.

Il risultato finale è stato – unito alla forte riduzione della mortalità infantile – il crollo della mortalità nell’età dell’adolescenza ed in quella della riproduzione. Ci sono stati alcuni “settori” d’incremento – pensiamo alle droghe, all’AIDS, agli incidenti stradali, ecc – ma nulla che possa minimamente essere messo in relazione con la mortalità precoce della prima metà del ‘900.

Dobbiamo, inoltre, considerare che le generazioni che oggi hanno più di 70 anni sono ancora nate nell’era “pre-antibiotici”, oppure hanno dovuto sopportare vicende di selezione terribili: si pensi a chi è sopravvissuto alla ritirata di Russia od alla guerra in Africa.

La demografia italiana è in costante calo e la popolazione viene mantenuta pressoché costante con l’immigrazione – questa, è bene dirlo, specificatamente richiesta dagli imprenditori, salvo poi criminalizzare l’immigrato per ottenere condizioni di lavoro che rasentano la schiavitù – e si tratta, dunque, di un meccanismo innaturale, le leve del quale non sono nella demografia stessa, bensì nella sfera di decisione politica.
La scienza non ha mai sostenuto che vi sia stato – in tempi biologici così brevi – una modificazione genetica del cosiddetto “orologio biologico”: nonostante il clamore mediatico che le trasmissioni televisive embedded propinano, la scienza afferma che la nostra aspettativa di vita – accidenti permettendo – non è cambiata nei secoli.
In altre parole, il genoma umano è il medesimo almeno da secoli [3]: ciò che può influenzare la longevità sono le abitudini di vita, lo stress, l’inquinamento, ecc. La scienza afferma che è possibile raggiungere una maggior longevità, ma che la stessa è il risultato di più fattori, fisici e psicologici.

Vorremmo sapere quale “bonus” – inteso come valore aggiunto alla propria aspettativa di vita – acquisisce un lavoratore a progetto a tempo determinato, il quale – per anni ed anni – non avrà nessuna sicurezza del proprio futuro, dovrà ingoiare come un rospo che permettersi d’avere un figlio sarà una grossa incognita, oppure vivere sapendo che, in caso di malattia, non avrà protezione sociale.
Qui divergono le prospettive “ottimiste” della scienza: si basano su parametri “ideali” senza scendere nella realtà delle vite quotidiane. Un semplice “provvedimento” come la pensione a 70 anni, più parecchi anni di precariato, quale effetto avrà sull’aspettativa di vita?

Se non basta la scienza, possiamo ragionare sul semplice buon senso: un operaio edile di 70 anni, potrà portarsi la carrozzella sul tetto? Che gioia, affidare i propri figli in gita scolastica ad un autista settantenne! O un treno?
E, tutto questo, mentre intere generazioni di giovani appassiscono nei call centre.

Passiamo ora ad analizzare le vere ragioni di un simile provvedimento.
Siccome le gestioni previdenziali sono fortemente in attivo, l’unica ragione per un simile innalzamento può derivare dal cedere della “gamba nascosta” della gestione: l’assistenza.

A differenza delle altre nazioni europee, l’Italia non ha separazione fra l’assistenza e la previdenza: i soldi per le pensioni e per i sostegni al reddito (cassa integrazione, ad esempio) provengono dalla stessa cassa.

Come può, un governo, garantirsi la pace sociale di questi tempi? Dando un po’ d’elemosina a chi perde il lavoro.

Ma, per farlo, non s’assume la responsabilità in proprio – ossia non s’inserisce come arbitro fra le imprese ed i lavoratori – ossia non partecipa al gioco come attore responsabile: semplicemente, prende soldi dalle casse previdenziali e distribuisce elemosine. Quella “solidarietà caritatevole” con la quale si riempiva la bocca George Bush.

Un simile percorso, però, conduce alla generale de-responsabilizzazione nel mondo dell’impresa: che mi frega – pensa l’imprenditore – se tutto va a rotoli? Salvo i capitali creati con il “nero” in Lussemburgo – se, poi, serviranno nuovamente in Italia me la caverò con il 5% dello “scudo fiscale” – e butto tutto nel deretano agli operai.

Salvo la piccola impresa – la quale, semplicemente, va a gambe all’aria e lascia sul lastrico i lavoratori – le imprese italiane pretendono soldi per produrre (incentivi) e ferree garanzie se le cose vanno male. Quante FIAT sono state pagate, nei decenni, con soldi pubblici?
Accidenti, che classe imprenditoriale!

Sommando i due effetti, se ne ottiene un terzo.

Aumentando l’età pensionabile in un quadro di sempre minor protezione sociale, s’aumenta la mortalità nella fascia fra i 60 ed i 70 anni, cosicché le prestazioni pensionistiche da fornire sono annullate in mancanza d’eredi (l’INPS trattiene tutto), e dimezzate per vedove e vedovi. Un bel malloppo.

Dunque, l’accusa di omicidio premeditato – alla luce dei fatti sopra esposti – non è proprio campata per aria: in aggiunta, sappiamo che fanno tutto questo per potersi permettere ogni anno 18 miliardi di auto blu, tangenti, case gratis, puttane e tutto il resto.

Ogni volta che sento parlare di “inevitabile” necessità di “rivedere” l’età pensionabile, quindi, mi torna alla mente Goebbels, e la mano corre a cercare la fondina.

Cosa bisogna fare?

Per prima cosa smetterla di seguire il giochino “destra-sinistra” sul quale campano. Poi, smetterla di seguire la TV: anche quando sembra tutto sommato accettabile, quasi sempre cela una pozione velenosa: perché, altrimenti, hanno ostacolato qualunque possibilità di TV indipendenti? La “pluralità” che doveva garantire la legge Gasparri – l’aumento delle frequenze disponibili – dov’è finita?

Per seconda cosa dobbiamo saper distinguere fra scenari macroeconomici e le situazioni nazionali e locali.

Il grande scenario internazionale è certamente dominato dalle grandi holding, e potrete chiamarle come più vi aggrada: multinazionali, sistema finanziario, Bilderberg, Illuminati, ecc.

Ma, a queste strutture, non potremo mai opporci proprio perché transnazionali e, in alcuni casi, semiocculte.

In campo nazionale e locale, invece – proprio perché chi va a sedersi sugli scranni diventa responsabile delle sue azioni direttamente – possiamo opporci e dobbiamo farlo, ne va della nostra vita e di quella dei nostri figli.

Come opporsi?

Inutile pensare di creare nuovi partiti o movimenti adesso, sarebbe del tutto inutile, e la Storia è zeppa d’avanguardie rivoluzionarie fucilate nei cortili delle caserme.

La strategia vincente passa ancora e sempre per l’informazione – l’attuale classe politica lo sa, e cerca di controllarla in modo ferreo – e finché potremo farlo dal Web alla luce del sole lo dovremo fare.

Qualora le leggi liberticide che stanno per varare dovessero metterci un bavaglio, trovare – ma insieme! E qui mi rivolgo ai tanti colleghi scrittori, giornalisti e bloggher – i mezzi per lavorare su piattaforme estere in lingua italiana, mediante pseudonimi, per aggirare la censura. I modi, se si vuole, si trovano: altre soluzioni sono auspicabili e, se migliori, da attuare.

Ultima cosa: saper distinguere, al nostro interno, le vere voci di dissenso perché intenzionate a portare costrutto dal chiacchiericcio dei troll e dei debunker che postano dalle sedi dei partiti, siano essi di governo o d’opposizione.

Fin quando accetteremo di comportarci come i Polli di Renzo, di strada ne faremo poca.

Sarebbe inutile e prolisso, in questa sede, tornare a riproporre gli infiniti esempi di una diversa gestione sociale che più volte abbiamo approfondito: energia, decrescita, reddito di cittadinanza, nuova agricoltura, nuovi trasporti, turismo, ecc.

Il nostro Paese potrebbe essere ricchissimo: solo che, una masnada di ladri ed imbroglioni, da circa un trentennio ha occupato le leve del potere. Come scalzarli?

Ricordate un antico proverbio orientale: “Quando l’allievo è pronto, giunge il Maestro”. Invece di scannarci per cose di poco conto – oppure lasciar spazio ai soliti furbetti del quartierino con più targhe, che si fingono “utenti qualunque” – impariamo ad usare l’informazione in modo militante.

Alle ultime elezioni, meno del 60% ha votato: non era mai successo, soprattutto per delle elezioni locali. E’ il segno che qualcosa sta cambiando: il momento della riscossa s’avvicina.
La strada è questa, però non basta che pochi scrivano: molti devono diffondere e discutere. Altrimenti, gli alieni mascherati che ci schiavizzano, c’avranno in pugno.

Grazie.

Carlo Bertani

Link: ">http://carlobertani.blogspot.com/2010/06/eutanasia-di-una-nazione.html

9.06.2010

[1]

Fonte: ">http://www.repubblica.it/economia/2010/06/08/news/da_2_a_5_anni_in_pi_di_lavoro_cos_il_governo_allunga_l_attesa-4656798/index.html?ref=search

[2]

Fonte: ">http://www.francoceccuzzi.it/wordpress/pdf/sistema_pensionistico_europeo.pdf

[3] Fonte: http://www.geragogia.net/editoriali/ambientelongevita.html

Messaggi

  • Spero che gli Italiani abbiano un pò d’orgoglio che è mancato negli ultimi 30 anni e dia un calcio nel c.lo a questa classe politica corrotta e servile al sistemo finanziario, multinazionale ecc. Ci vuole una riscossa ad esempio tramite informazioni e discussioni costruttive nel web, di tutta la gente onesta per recuperare tutto quello che ci hanno tolto, compreso la nostra dignità.

    • L’Ue obbliga la pensione a 65 anni? Falso


      Non è assolutamente vero che l’Europa impone che le donne italiane vadano in pensione a 65 anni, come invece viene motivato in modo infondato non solo dal governo, ma dalla più parte dei media. Com’è che invece l’informazione non solleva alcun dubbio?

      I pronunciamenti di Commissione e Parlamento europeo non riguardano l’innalzamento dell’età, ma sono fondati sull’esigenza di non discriminare il lavoro femminile, giacché tutte le ricerche denunciano retribuzioni e pensioni inferiori a quelle maschili. Con la direttiva 79/1978, l’Europa salva infatti la possibilità per gli stati di stabilire età di pensione differenti tra uomini e donne; e comunque l’Unione non può intervenire sull’età stabilita dai paesi membri. Può, invece, chiedere conto di atti discriminanti, come «obbligare» le donne ad andare in pensione prima: perché, in presenza di un regime legato ai contributi, porta a un rendimento ridotto.

      Esiste dunque una questione di parità, ma non riguarda l’età. Nella «Piattaforma di Pechino» i governi si erano piuttosto impegnati a esplicitare l’impatto delle politiche economiche in termini di lavoro pagato e non pagato e di accessi al reddito delle donne. E il Consiglio Europeo di Lisbona, nel marzo 2000, fissava l’obiettivo del pieno impiego attraverso un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e il diritto fondamentale al lavoro di uomini e donne. Nel diritto comunitario, del resto, la tutela antidiscriminatoria è da sempre un architrave, che col Trattato di Amsterdam del 1998 è divenuto un principio fondamentale.
      I dati ufficiali mostrano invece che siamo ben lontane da una parità retributiva, quindi economica, sociale e politica. Questo il quadro: fino a 20.000 euro, 48% donne e 52% uomini; da 20.000 a 40.000, 27% donne e 73% uomini; da 40.000 a 60.000, 20% donne 80% uomini; da 60.000 a 80.000, 15% donne 85% uomini; da 80.000 a 100.000, 12% donne 88% uomini; oltre 100.000, 10% donne 90% uomini.

      Il differenziale retributivo uomo/donna si attesta su una media del 23%. Il gap per le retribuzioni nette annue delle donne va da 3.800 euro per i dipendenti a tempo indeterminato agli oltre 10 mila degli autonomi. Gli uomini hanno in media redditi superiori in tutte le forme contrattuali: 23% nel lavoro dipendente, 40% in quello autonomo, 24% per le collaborazioni.
      Il lavoro delle donne nei 14 paesi più avanzati per un terzo è lavoro pagato e per due terzi è lavoro non pagato. Mentre tre quarti del lavoro degli uomini è pagato ed un quarto no. Quindi, è il peso dell’ineguaglianza di genere nella distribuzione del lavoro non pagato che determina le condizioni materiali delle donne nel lavoro produttivo a tutti i livelli. Ciò mentre rimane un carico di lavoro famigliare non retribuito: all’Italia appartiene infatti il primato del tempo dedicato dalle donne al lavoro familiare. Lisbona auspica il raggiungimento nel 2010 di un tasso di occupazione femminile del 60% in tutti i paesi. I nostri tassi di occupazione femminile risultano inferiori a quelli medi dell’Ue per ogni classe d’età e non solo rispetto all’Europa a 15, ma anche rispetto alle recenti adesioni. L’Italia infatti è, dopo Malta, il paese con i più bassi livelli di occupazione femminile di tutta l’Ue.

      Quanto poi alle anziane e pensionate, due dati sono confermati in tutte le aree del paese e in tutti gli enti previdenziali: il 76% dei trattamenti integrati al minimo (cioè sotto i 500 euro mensili) riguarda le donne (2,6 milioni) e le donne mono-pensionate sono il 64,8% del totale, con un importo medio annuo di circa 7.300 euro. Si aggiunga che solo l’1,2% delle donne arriva ad avere 40 anni di contributi, il 9% arriva a una contribuzione fra i 35 e i 40 anni e ben il 52% è al di sotto dei vent’anni. Il che la dice lunga su ogni ipotesi di elevamento dell’età pensionabile per le donne, che attualmente in Italia avrebbe solo l’effetto di peggiorare le condizioni per quelle poche che riescono ad andare in pensione con una vita lavorativa consistente alle spalle.
      Prima di omologarsi ad una stramba idea di parità, ci piacerebbe che almeno il sistema dell’informazione desse conto di questa condizione in modo documentato. E forse scopriremmo che quella della disparità tra differenti è l’unica uguaglianza e una battaglia politica che val la pena di fare.

      Rosa Rinaldi (segreteria Prc, ex sottosegretaria al lavoro)

      www.ilmanifesto.it

      11.06.2010

    • C’è una Corte Europea che emette sentenze. Oggi ci fanno sentire il dovere morale di accettare l’innalzamento dell’età pensionabile per le donne... "contro la discriminazione", "abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità" e la solita sequela di luoghi comuni tesi a mantenere saldamente la ricchezza nelle mani della borghesia industrial-evasiva e a far pagare i soliti. D’accordo, siamo dei cazzoni, nessuno di noi scenderà in piazza a gridare la propria rabbia: che lo stato faccia lavorare le donne come gli uomini, senza dare nulla in cambio, anzi tagliando i servizi come asili, scuole a tempo pieno, sostegni alla famiglia, tando ce lo dice la Corte Europea.

      Però tra due anni, quando finalmente le donne sentiranno il peso dell’emancipazione (strano concetto, interpretato come voler assomigliare all’uomo, nel lavoro ed in Afganistan) io pretendo che sbattano fuori dalle aule TUTTI i crocefissi che impongono una unica fede religiosa e che inquisiscano TUTTI i farmacisti e medici "obbiettori" della 194, che obbligano la donna a sottostare al loro credo cattolico antiabortista, negandole la RU486 e l’intervento chirurgico. Lo vuole (tra le decine di altre richieste ignorate) anche la Corte Europea che in proposito ha già deferito l’Italia, nazione bislacca con una strana sensibilità alle sentenze.

      Vabbè, finita la parte che qualcuno potrebbe chiamare "ideologica", passiamo al testo della sentenza. Estraggo:

      "... l’art. 2, n. 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335, dispone che i dipendenti pubblici di sesso femminile, possono percepire la pensione di vecchiaia all’età di 60 anni, senza tuttavia prevedere una facoltà analoga per i dipendenti pubblici di sesso maschile."
      [...]

      "La Commissione ritiene che il regime pensionistico costituisca un regime discriminatorio contrario all’art. 141 CE in quanto fissa l’età pensionabile a 60 anni per i dipendenti pubblici di sesso femminile, mentre la stessa è fissata a 65 anni per i dipendenti pubblici di sesso maschile."

      A completare il quadro l’articolo 141 CE recita:

      1. Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.

      2. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo. La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica:

      a) che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura;

      b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro.

      3. Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all’articolo 251 e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adotta misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.

      4. Allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali.

      Tralascio il fatto che il punto 4 sia pura utopia nell’italietta interinale e del se hai vent’anni e sei donna ti assumo solo se firmi che non rimani incinta.
      Non capisco dove venga richiesto l’innalzamento dell’età, perchè mi pare che la sentenza sia motivata solo per la discriminazione.

      In tal caso, perchè non risolvere parificando l’età pensionabile a 62 anni?

      sacrabolt

      http://sacrabolt.altervista.org/index.php/component/content/273?task=view

    • La finta parità tra uomini e donne

      Il governo dà il via libera all’innalzamento dell’età pensionabile per le donne nel pubblico impiego: dal 2012 ci si potrà ritirare dal lavoro solo con 65 anni di età. L’Italia risponde così alla richiesta di «parità» avanzata da Bruxelles. Ma ad essere ossequiato è solo il totem paritario: tutto il resto resta dispari. Diversamente dal resto d’Europa Il governo ha deciso: dal 2012 per le dipendenti pubbliche serviranno 65 anni per andare pensione.

      Commento amaro, quello di Guglielmo Epifani: «Non esiste al mondo manovra di innalzamento dell’età pensionabile che da un giorno all’altro aumenta di cinque anni l’età pensionabile». Per il segretario generale della Cgil per arrivare alla parificazione di trattamento tra uomini e donne nel pubblico impiego, come ha chiesto l’Unione Europea, si poteva «utilizzare lo strumento della flessibilità uguale per uomini e donne, per i lavoratori pubblici e privati, in uscita verso la vecchiaia». Ma il governo ieri mattina ha deciso diversamente: dal primo gennaio 2012 le donne per poter andare in pensione dovranno aver compiuto 65 anni. Come gli uomini. E per molte di loro proseguirà il tormento del doppio lavoro: quello statale e quello di cura in ambito familiare.
      A dare l’annuncio ufficiale al termine del consiglio dei ministri è stato Maurizio Sacconi. Il ministro del lavoro, che nei giorni scorsi aveva cercato di contrattare senza molta convinzione con la Commissione Ue, l’innalzamento dell’età avverrà «senza passaggi intermedi». Sacconi ha anche spiegato che la nuova norma sarà presentata come emendamento alla manovra finanziaria 2011-2012. L’impatto del «blocco», secondo il ministro «sarà limitato e riguarderà una platea stimata in 25 mila donne».

      Nel corso di una conferenza stampa, Sacconi ha sottolineato che la nuova normativa «non riguarda in alcun modo il settore privato, non è neanche la premessa per un intervento nel privato dove ci sono condizioni straordinariamente» diverse. Per il ministro della pubblica amministrazione, Renato Brunetta, l’intervento «non serve a fare cassa perché l’impatto economico sarà zero nel 2010 e nel 2011, 50 milioni nel 2012 e 150 nel 2013». Inoltre, ha assicurato, tutte le risorse risparmiate andranno ad un fondo sociale dedicato alle donne, secondo quanto proposto da Mara Carfagna, ministra per le pari opportunità.

      La mancanza di impatto finanziario nel 2010-2011 significa che fino alla fine del prossimo anno rimarranno in vigore le attuali norme varate circa un anno fa dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte di giustizia europea. Quella legge prevedeva un progressivo innalzamento dell’età necessaria per aver diritto alla pensione di vecchiaia fino all’equiparazione uomini/donne nel 2018. In pratica ogni due anni era previsto un anno in pù. Per l’anno in corso e per il prossimo era prevista una età minima per maturare la pensione di 61 anni, mentre per il 2012 e il 2013 di anni ne sarebbero serviti 62 e così via, fino al 2018. Ora cambia tutto: a salvarsi saranno solo le donne che compiranno i 61 anni entro il 2011, mentre per tutte le altre dal primo gennaio 2012 serviranno 65 anni.

      In realtà il governo nella prima versione della manovra finanziaria aveva rimesso mano all’innalzamento progressivo dell’età: non più un anno ogni 24 mesi, ma ogni 18 mesi. In questo modo l’equiparazione sarebbe avvenuta non più nel 2018, ma nel 2016. Poi, misteriosamente, nella versione definitiva del decreto legge, questa modifica è scomparsa. Il governo avvisato da Bruxelles che la Commissione europea premeva per l’immediata equiparazione a 65 anni, ha deciso di fare bella figura, lasciando immutata la legislazione. Introducendo, tuttavia, un correttivo non da poco, il prolungamento di un anno dell’attività lavorativa. In pratica le donne potranno andare in pensione, un anno dopo aver maturato il diritto alla pensione di vecchiaia. Da quel che sembra, questa norma sarà matenuta in vigore solo per le donne che entro il 2011 maturano il diritto alla pensione di vecchiaia (quindi andranno in pensione non a 61 anni, ma a 62), mentre sarà abolita per tutte le altre, già abbondantemente penalizzate dall’innalzamento dell’età.

      Innalzamento «inaccettabile e non sensato», soprattutto se le risorse risparmiate non venissero utilizzate per garantire alle donne stesse «parità di condizioni di lavoro e di vita» con gli uomini, ha commentato Pier Luigi Bersani. Il segretario del Pd ha ribadito la posizione del suo partito affermando: «Siamo da sempre affezionati all’idea che questo problema si risolve con la flessibilità in uscita per tutti». In pratica, si tratta di prevedere «una soglia minima per l’età pensionabile e poi, per alcuni anni, una flessibilità in uscita in rapporto al livello di pensione percepita».

      Da "Il Manifesto" 13.6.2010