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Figli d’America

Publie le mercoledì 21 luglio 2004 par Open-Publishing

Dazibao


di Daniele De Luca

Intervista a Nancy Lessin, madre di un soldato Usa. E attivista contro la guerra in Iraq

Camilo Meja è in galera da quasi due mesi per scontare un giudizio al momento unico nel suo caso. E’ il primo soldato americano tornato dall’Iraq e successivamente richiamato a rifiutarsi di partire e a dichiararsi obiettore di coscienza.
Il suo caso negli Stati Uniti è stato poco pubblicizzato dai media, a parte un paio di servizi sulla Cnn e altrettanti articoli sul New York Times. Tuttavia, per le associazioni dei diritti civili e le tante sigle del pacifismo americano, quello di Camilo è un nome ben noto.
Si conoscono diversi casi di giovani soldati rientrati dall’Iraq che spariscono in Canada approfittando delle licenze (va ricordato che il Pentagono ha sospeso tutti i permessi a oltre 30mila uomini per la scarsità di truppe nel paese). Ma Meja è il primo a definire pubblicamente la guerra "illegale" e a pagarne fino in fondo le conseguenze.
Abbiamo parlato di lui con Nancy Lessin, 50enne fondatrice di Military Families Speaks Out, la principale organizzazione di familiari dei militari impegnati nei teatri di guerra che all’invasione dell’Irak si è sempre opposta. Nancy vive a Boston e attraversa gli Usa in lungo e in largo per promuovere manifestazioni ed eventi pacifisti.
Suo figlio Joe, per fortuna, è tornato intero dal Medio Oriente.

Sig.ra Lessin, Camilo Meja è stato da poco riascoltato in carcere dalla Commissione Militare. Può dirci qual è ora la sua situazione?

E’ in prigione in Oklahoma. E’ stato formalmente accusato di diserzione il 21 maggio e condannato ad un anno di reclusione oltre ad essere stato degradato per cattiva condotta . La settimana scorsa nella prigione c’è stata un’udienza per la sua richiesta di obiezione di coscienza.

Quando pensa che si saprà qualcosa?

Al momento non è stata fissata alcuna data. Tuttavia speriamo di avere novità nelle prossime due o tre settimane, quando forse verrà reso noto il rapporto dell’ufficiale della commissione, un capitano di Fort Stewart in Georgia. E’ lui che ha sentito i testimoni a favore dell’istanza di obiezione. Ed è a lui che spetta un rapporto da presentare all’esercito. Abbiamo motivo di credere che arrivi entro un paio di settimane. Da lì poi il tutto viene consegnato alla catena di comando, che non sappiamo quanto tempo impiegherà a formulare una decisione. Speriamo che facciano in fretta, che lo riconoscano obiettore e che lo rilascino, ribaltando la sentenza.

Su che elementi legali puntate? Gli Stati Uniti riconoscono lo status di obiettori?

Lo status di obiettore è ufficialmente riconosciuto nelle normative dell’esercito. E’ previsto che non possano partecipare ad azioni di combattimento e molti vengono dispensati dal servizio, ed è esattamente quello che speriamo in questo caso.
Poi ci sono altri aspetti. Camilo ha una doppia cittadinanza nicaraguense e costaricana.
Il Costarica ha firmato un trattato con gli USA nel 1851 dove si dice che i suoi cittadini non possono essere obbligati a svolgere il servizio militare negli Stati Uniti, che non ci possa essere alcuna pressione. Di fatto Camilo aveva completato i suoi otto anni di ferma ma è stato obbligato dall’esercito a rimanere in divisa, quindi su questo ci sono appigli legali. Ci piacerebbe che l’ambasciata del Costarica si facesse sentire e che chiedesse il rispetto di questo trattato. Camilo non doveva essere nemmeno processato né condannato per diserzione e tantomeno trovarsi ora in galera.
L’altro aspetto significativo è che Amnesty International , il 4 giugno, ha dichiarato Camilo "prigioniero di coscienza" e ha chiesto il suo rilascio immediato.
Erano più di 13 anni che Amnesty non indicava come tale un carcerato nelle prigioni americane. E poi c’è tanta gente qui e all’estero che conosce la situazione di Camilo e chiede che sia fatta giustizia.

Può dirmi qualcosa del vostro gruppo e della sua storia personale?

Mio figlio Joe era un marine che ha servito l’esercito dal 1999. Nell’agosto del 2002 si trovava in Kosovo quando ci disse che lo avrebbero mandato in Iraq. In quel momento qui da noi c’era aria di guerra e io e mio marito eravamo assolutamente contrari all’idea di invadere quel paese. Non aveva alcun senso. Ricordo che facemmo un manifesto in quei giorni con la foto di nostro figlio e sotto scritto "Nostro figlio è un marine! Non mandatelo in guerra per il petrolio!". Eravamo già convinti che l’oro nero fosse il vero motivo dell’invasione dell’Iraq. Eravamo coscienti del fatto che le nostre truppe sarebbero state usate come carne da cannone per il potere e il business della ricostruzione. Quindi siamo partiti per cercare di combattere l’idea di invadere l’Iraq. Abbiamo incontrato il padre di un ragazzo che stava per partire per il Medio Oriente e poi nel novembre del 2002 abbiamo fondato Military families speak out. Il nostro obiettivo era quello di usare la forza delle nostre voci per prevenire una invasione. Notavamo come tutti quelli che dicevano "bisogna fare la guerra" non erano veramente coinvolti: erano i nostri figli ad andare, non i loro. Comunque siamo partiti che eravamo due nuclei familiari e oggi nell’associazione ci sono più di 1.500 famiglie con parenti impegnati in guerra a tutti i livelli, che parlano apertamente contro l’occupazione e chiedono di far tornare a casa le truppe e di mettere fine alla politica che ha permesso questa guerra illegale e immorale.
Siamo andati a parlare con i membri del congresso, abbiamo fatto manifestazioni, siamo andati nelle scuole (e conoscevamo la famiglia di Camilo Meja da molto prima che tornasse dall’Irak, prima che si rifutasse di tornare a combattere).

Negli ultimi mesi sempre più famiglie si sono messe in contatto con voi. Ha notato un cambiamento nelle coscienze dei familiari dei soldati?

In realtà è dal 2002 che continuiamo a crescere ed ad aumentare e ogni giorno ci sono nuove famiglie che si mettono in contatto con noi. Anche oggi, quando ci chiamano, ci dicono ’siamo contenti che esistiate. Pensavamo di essere gli unici a pensarla così.
Credevamo di essere i soli ad avere dei cari nell’esercito e ad essere contro questa guerra. Penso che ora il film di Michael Moore aiuterà molti a capire, a fare chiarezza. La madre del militare ucciso che si vede nel film fa parte di Military families speak out. Ci conosciamo da tempo.

http://www.peacereporter.net/it/canali/voci/interviste/000guerra/040720camilomeja