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I NOSTRI ANNI

Publie le sabato 10 luglio 2004 par Open-Publishing

Dazibao Cinema-video - foto Enrico Campofreda


di Enrico Campofreda

"Tu sei un mio nemico prendo, ti fucilo, t’ammazzo cosa brutta, crudele quello
che vuoi. Ma se prima d’ammazzarti ti cavo gli occhi, ti sventro, ti taglio i
testicoli è diverso, no? Sai quanta gente hanno ucciso così i fascisti? Italiani
brava gente un cazzo!"

Le parole di Natalino cinquant’anni dopo pesano come il piombo dei proiettili
che sparava ai nazifascisti e che questi sparavano a lui e ai suoi compagni partigiani.
Però con la differenza che egli spiega: i morti son tutti uguali ma i moribondi
no. Natalino ha visto torturare e trucidare dai "ragazzi di Salò" alcuni compagni
feriti. Anche questo fa la differenza.

Perché oltre alla divisione fra chi lottava per la libertà e chi per l’oppressione,
fra chi voleva difendere il futuro e la vita e chi esaltava la ’bella morte’,
la diversità degli schieramenti passa per quello che c’era dietro la morte.

Passa per le agghiaccianti torture praticate da Brigate Nere, Muti, X Mas, dalle
polizie fasciste e para-naziste, dalle SS a partigiani e inermi cittadini e per
l’atto estremo dell’eliminazione del nemico operato dai partigiani con repentine
fucilazioni: i fascisti venivano passati per le armi non torturati.

L’opera prima di Gaglianone non gira attorno alle cose entra nel merito d’un tema ideologico. Il suo fare cinema sceglie una discriminante che il regista stesso spiega con la seguente metafora "Ci sono due tipi di film. Quelli che cercano di farsi dare un passaggio nell’auto dello spettatore. Altri che lo acciuffano e lo ficcano nella propria auto. Preferisco questi, che ti prendono di forza e ti portano a fare un viaggio in un posto che non conosci" (intervista a La Repubblica del 5 maggio 2004).
Così le sue immagini in bianco e nero e i flashback restano stampati nella mente di chi osserva come i chiaroscuri della storia che narra e le anime serene e inquiete dei protagonisti.

Trama
C’è un’ossessione che perseguita Alberto, vecchio pensionato dallo sguardo mite. La ritrova fra le colonne della stazione mentre parla a se stesso e guarda nel vuoto. Non che sia suonato, Alberto nonostante l’età è arzillo e sveglissimo ma da cinquant’anni vede la stessa scena: una boscaglia di pioppi fra le colline piemontesi dove lasciò i corpi straziati di alcuni compagni di lotta, l’amicizia di Saturnino, la fiducia in un mondo dove potesse albergare umanità. In quel terribile giorno l’umanità svanì dai suoi orizzonti di uomo perché l’orrore gli si stampava davanti agli occhi.

E’ vecchio e solo Alberto, ha un pensione minima. La Repubblica, quella con la maiuscola nata dalla Resistenza che è stata anche sua, non gli ha riconosciuto i venti mesi di lotta di Liberazione e non ha grandi sostegni economici. Va in un ospizio controvoglia, non si sente vecchio come gli ospiti di quella casa. Alberto è sensibile, vede un uomo in carrozzina bloccato da una semiparesi e familiarizza con lui. Parlano del passato, Alberto narra della guerra. L’uomo in carrozzina, Umberto, è sfuggente, parla poco, sembra voler nascondere qualcosa.

Fra un brodino e una visita alla cappella i due trascorrono giornate vuote e dense di ricordi. Per Alberto la scena-oppressione si ripete: è con Natalino a liberare tre compagni di banda catturati dai tedeschi, uno è Saturnino. Sono feriti, legati al palo, destinati alla morte. In un blitz notturno liberano i tre e li portano via per la boscaglia. L’iniziativa è personale, quasi ’una questione privata’ di fenogliana memoria. Mentre fuggono con addosso i corpi dei compagni macerati di sangue e fango, Natalino e Alberto s’accorgono di essere stremati. Potrebbero non farcela se i tedeschi, come probabile, hanno già lanciato l’inseguimento. Così Natalino decide di chiedere rinforzi alla non distante postazione partigiana e lascia Alberto di guardia ai feriti.

I minuti scorrono lenti fra l’agonia dei martirizzati, Alberto vive il terrore di veder apparire i nazisti. A un tratto sente voci amiche: Natalino sopraggiunge con altri compagni, per allentare la tensione gli si fa incontro lasciando il fucile sul posto. Intanto sopraggiungono le Brigate Nere ("I fascisti facevano i lavori più sporchi, i tedeschi facevano fare a loro") al comando del capitano Umberto Passoni, che dei corpi martoriati dei partigiani fa scempio nei modi descritti da Natalino.
Disperato, da dietro un pioppo, Alberto vede tutto e non può fare niente: ha abbandonato l’arma. La scena di quella mattanza continua a passare come un ralenti davanti agli occhi dell’ex partigiano.

Il suo amico Natalino vive in montagna. E’ tornato lì poiché non c’è posto dove meglio si possa respirare l’aria di libertà ("basta aver respirato quell’aria e per il resto della vita non la dimentichi più").
Natalino ha mani grinzose, spacca ancora legna, viene visitato da giovani che gli chiedono cosa sia rimasto dello spirito della Resistenza. Lui batte il pugno sul tavolo "Non è rimasto niente - sentenzia - non importa a noi che l’abbiamo vissuta, figurarsi agli altri. Lapidi, corone rinsecchite. Non frega più niente a nessuno" è l’amara conclusione. Frattanto Alberto composto nel nel suo cappello e paltò continua a scrutare il conoscente dell’ospizio. Quel volto … Un giorno ha un flash "ma certo, è il volto invecchiato e storpio del fanatico repubblichino che comandava il manipolo di assassini".

Il volto che da cinquant’anni lo perseguita. Non sta più nella pelle e corre ad avvertire Natalino nella sua baita di montagna. Il compagno l’ascolta perplesso "Ma che vuoi fare? E’ passato tanto tempo" "Ma insomma ti sei rincoglionito? Replica secco Alberto "E Saturnino? E il modo con cui quel bastardo l’ha massacrato, non lo ricordi?". Anche Natalino si convince, riesuma pistola e fucile e parte con l’amico per la vendetta. Vanno con le armi avvolte in poveri panni, armi vecchie come loro, come i loro ricordi, come la sete di giustizia rimasta inappagata.

Riesumano anche una 128 d’epoca che ha subito un problema: buca una gomma. Per ripararla i due ricorrono, contro la loro volontà, a una pattuglia di carabinieri che si offrono di aiutarli. Alberto è in ansia per le armi nel bagagliaio, ma non accade nulla e giungono all’ospizio. Cercano il loro uomo. Poco prima d’entrare Alberto, impacciato, fa cadere a terra la pistola e un’infermiera se ne accorge. Mentre va a dare l’allarme i due vecchi hanno il tempo d’entrare nella stanza del repubblichino infermo. Gli rammentano il passato. Lui dice: c’era la guerra, eravamo tutti soldati. Io non sono mai stato soldato, incalza Natalino. Lo insultano, Alberto gli punta addosso la pistola e simula un’esecuzione anche se l’arma è scarica. Arrivano i carabinieri, gli stessi del cambio della gomma, e li accompagnano fuori. In fondo non è accaduto nulla, ma ai due vecchi partigiani niente restituirà l’amico Saturnino. Non certo la morte oltre ogni limite temporale dell’aguzzino fascista.
Escono e camminano alla luce del sole. Forse Alberto non avrà più l’incubo d’una vita.

Regia: Daniele Gaglianone
Soggetto e Sceneggiatura:Gaime Alone, Daniele Gaglianone
Direttore della fotografia: Gherardo Gossi
Montaggio: Luca Gasparini
Interpreti principali: Virgilio Biei, Piero Franzo, Giuseppe Boccalatte, Massimo Miride, Enrico Saletti, Luigi Salerno, Diego Cantieri
Musica originale: Massimo Miride, Giuseppe, Napoli, Monica Affatato, Daniele Gaglianone
Produzione: Lia Furxhi
Origine: Italia
Durata: 81’

http://www.lankelot.com/cinema-recensione-nostri-anni.html

10.07.2004
Collettivo Bellaciao