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In memoria di Ivo Zini, ammazzato dai fascisti

Publie le martedì 28 settembre 2010 par Open-Publishing
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Una targa è quel che ne rimane. E una foto, dove il ragazzo ritratto non è nemmeno lui, ma un’ennesima beffa del destino. Qualche ritaglio di giornale, nessuna apparizione televisiva, nessun roboante commiato, nessun vero ricordo se non quello della strada. Eccome se lo ricordano i ragazzi di allora e talvolta quelli della nuova generazione. Perché non si può morire così, come peraltro tanti compagni, ma non così senza che nessuno restituisca alla tua morte il movente. Si legge “hanno sparato a casaccio” mentre Ivo leggeva da una bacheca di una di quelle sezioni del partito; ora la propaganda costruirebbe barocche storie di una certa opulenza a suo uso e consumo, ora tanta è la bulimia di eroi, tanta è la scarsezza. È lì che Ivo Zini fu ucciso a venticinque anni, davanti alla bacheca dove ancora adesso dai militanti più anziani viene affissa ogni mattina la tradizionale copia murale de l’Unità. Era il 28 settembre 1978. Ivo stava leggendo la pagina dei cinema.
Ma non c’è niente di eroico né retorico nella morte se non le si restituisce con un tentativo tutto umano il maltolto, definizione tanto arida quanto impropria, attraverso quel gesto che solo l’uomo sa offrire con parsimonia, sempre più parco, che è quello della giustizia. I colpevoli c’erano, i colpevoli erano inchiodati a una sentenza, fra questi Mario Corsi detto “Marione”, oggi voce giallo-rossa della curva e delle radio romane, mediocre agitatore di programmi politici capitolin-leghisti e amico di Roberto Fiore, condannato in appello a 23 anni, fu incredibilmente prosciolto dalla Cassazione nel 1989, come già era accaduto per l’omicidio del Casoretto: uccisi un anno prima furono i due compagni Fausto e Iaio che indagavano sui giri di spaccio di eroina a Milano. L’agguato si svolge giusto il tempo di un istante, come ricorda il fratello Aldo, unico depositario della storia: Ivo è con Vincenzo De Blasio, 28 anni, e Luciano Ludovisi, 30 anni, all’improvviso si ferma un “vespone” bianco con due ragazzi che, a volto coperto, cominciano a sparare. Dei quattro colpi uno al petto uccide Ivo, gli altri due sono per Vincenzo che è ferito alla gamba e al polso, l’altro finisce sul muro, Luciano è incolume.
Il fratello Aldo in un’intervista recente ha espresso un timore comprensibile, quasi la certezza lapidea di una pena protratta nel tempo, una condanna di silenzi giunta fino a noi quella cioè che di Ivo si smetta di parlare, che si deleghi la memoria di un ragazzo ucciso alle storie di un passato senza soluzione di continuità, avvolto nelle fitte nebbie dei misteri. Non si può affidare la storia di Ivo, come quella di Walter, come quella di Fausto e Iaio e tanti compagni uccisi alle complicità di una informazione accondiscendente, prona all’aberrazione politica dei tempi. Chiedere giustizia, oltre ad essere un diritto umanamente sancito assume in questo caso uno spessore etico che l’opinione pubblica avverte come istinto, necessità, tutela di sé, ma anche rassegnazione alla disonestà diffusa, alla difficoltà quotidiana di essere protetti da una società che ingloba e fagocita ogni morale norma.
Non si può affidare la storia di Ivo a una targa di modeste dimensioni, dove oggi distratti si passa di fretta, non si può affidare la memoria alla singola iniziativa spontanea di chi si adopera nel passaparola di un ricordo sanguinoso e drammatico che conserva un volto, un nome, un assassinio, e certamente non vanno in prescrizione.
La matrice politica ora come allora è scomoda per quelli che hanno creduto di poter sostituire con un’abile operazione di restauro etico apparente a colpi di negazionismi, l’illegalità alla poltrona. Eppure rimane dato di fatto, generatrice certa. Tirarsi indietro, sottrarsi a quello che in altra sede chiameremmo movente, significa negare una realtà di quei tempi, e obnubilare la memoria strumento del presente ad esso funzionale. Dimenticare o far in modo che questo in noi accada significa privarci della possibilità di poter interpretare quello che oggi si svolge sotto i nostri occhi, indurci a una cecità di decodificazione. Ci rende senza dubbio più deboli.
E non è per questo che sono morti i compagni, per consegnare i compagni a venire nelle tentacolari braccia di un potere identico a quello che loro combattevano.
Delle cerimonie ufficiali il fratello Aldo non sembra preoccuparsene troppo, aggiunge solo : «Però la memoria chissà forse serve a qualcosa».
«Siano processati gli squadristi», recitavano gli striscioni quando un’intera città scese in piazza.
Quel momento arriverà, ne siamo certi. Ma prima devono cadere certi apparati, certe trame e certi ingranaggi che ai responsabili fanno insieme da alcova, nido e giaciglio blindato.
«Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l’orina dei muli. Basta un grido di Pin, un grido per incominciare una canzone, a naso all’aria sulla soglia della bottega, o un grido cacciato prima che la mano di Pietromagro il ciabattino gli sia scesa tra capo e collo per picchiarlo, perché dai davanzali nasca un’eco di richiami e d’insulti. [ Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi] »

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