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LA SINDROME DI STALINGRADO

Publie le martedì 11 maggio 2004 par Open-Publishing
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Dazibao


di L’Avamposto degli Incompatibili

Una strana sindrome si aggira nel movimento: la sindrome di Stalingrado!
Pensavamo che questa sindrome si fosse esaurita dopo la guerra del Vietnam, ma
invece essa continua
ad imperversare
Cosa intendiamo quando parliamo di sindrome di Stalingrado?
Parliamo chiaramente dell’abitudine consolidata di concentrarsi nella battaglia
anticapitalista su un unico obiettivo
considerato focale per sconfiggere il nemico, non considerandone più la
primaria essenza capitalista,
ma vedendone solo il carattere imperialista.
Partendo da questo modo di considerare la questione diventa quasi obbligato,
poi, passare dall’antimperialismo all’antiamericanismo.
L’altro ieri l’Iraq, poi la Somalia, quindi i Balcani ed infine di nuovo l’Iraq.
Tutte le volte dalla vittoria nel posto focale dipendeva il futuro dell’umanità!
E non ci si accorgeva che la questione non era poi così lineare, che non
bastava vincere in quel posto,
ma che bisognava creare dappertutto una lotta serrata e radicale contro il sistema
capitalista.
Pure le prove di ciò erano sotto gli occhi di tutti: la vittoria del Vietnam
alla fine aveva portato ad un nuovo polo
a sua volta imperialista, quello del Vietnam, appunto, che sotto l’egida del
socialimperialismo sovietico,
aveva allargato la sua influenza politica, economica e militare in tutta l’area,
occupando la Cambogia, il Laos
ed altre zone limitrofe; ed anche la fuga precipitosa degli yankees e dei loro
alleati dalla Somalia
non è che poi aveva sviluppato chissà quali vittorie del movimento
anticapitalista!
Il problema è proprio derivato dal fatto che non è per niente dato
che una lotta antimperialista
sia necessariamente anticapitalista.
E’ vero il contrario, che cioè una lotta anticapitalista è necessariamente
antimperialista, ma non viceversa.
Molto spesso, invece, la lotta antimperialista, specialmente quella con forti
connotazioni nazionalistiche,
è
intrinseca allo stesso sviluppo capitalistico. Facciamo qualche esempio:
abbiamo già parlato dell’esempio vietnamita, che peraltro, per motivi
ideologici, sembrava anche
quella più affine al movimento comunista internazionale, e di cui peraltro
abbiamo visto le risultanze finali.
Ma anche i casi più recenti sembrano mostrarci lo stesso percorso.
Prendiamo due dei casi più recenti: la 1^ guerra del Golfo e la guerra
nei Balcani.
La 1^ guerra del Golfo trae le sue origini dalla guerra Iran-Iraq, dove i due
contendenti muovevano indubbiamente
le truppe per acquisire (conquistare) pezzi di territorio dell’altro contendente,
e trattandosi della zona di confine
nel Sud Iraq, cioè quella zona di confine fra i due stati fra le più ricche
di petrolio, si capisce la forte connotazione
economica e tendenzialmente imperialista dei due stati. Tanto è vero che
a turno i due contendenti si assicuravano
la protezione dei due padrini, quello Usa e quello "sovietico", interessati
entrambi all’espansione del loro protetto.
La stessa cosa nei Balcani, dove lo stesso Milosevic durante la guerra dichiarava
pubblicamente che la sua
era una guerra(preventiva?) per fermare l’infiltrazione musulmana nel cuore dell’Europa.
E, per certi versi, aveva pure ragione, perchéturchi e alcune frange musulmane,
tramite Bosnia,
Albania e Macedonia, stavano tentando un allargamento della loro sfera d’influenza
nel sud-est del vecchio
continente e dell’Asia, a partire dai Balcani e finendo alla Cecenia e ai paesi
del Caucaso.
E tutto questo è normale, perchéquando ci si muove da logiche nazionalistiche,
fondate sulle etnie e sui "popoli",
prima o poi si sconfina nell’imperialismo, sia pure cadetto.
Ma veniamo all’Iraq attuale. La resistenza all’invasione amerikana in quella
zona è in gran parte connotata
da due caratteristiche, confliggenti in alcuni momenti, alleate in altri, e cioè quella
nazionalistica e quella religiosa.
Ma se si guarda bene, poi nazionalistiche sono entrambe, la differenza sta solo
nel fatto che la prima
guarda alla nazione iraqena, la seconda guarda alla nazione islamica.
Ma ambedue quando cacceranno gli occidentali, cosa che puntualmente avverrà,
perlomeno finchégli occidentali
si chiameranno anglo-italo-americani, cercheranno prima o poi l’avventura imperialista.
Nel caso di vittoria dei nazionalisti, prima o poi, scoppieranno i problemi dei
confini, al nord
contro i kurdi collaborazionisti, e prima o poi anche al sud per il problema
dei pozzi petroliferi.
Se vince la componente religiosa, si allargherà la tendenza, già in
atto per esempio in Africa, dell’espansionismo islamico.
Perchéil problema è proprio quello del nazionalismo, che spesso
nasce per difendersi dal nazionalismo
oppressivo di altri, nella fase attuale dall’imperialismo, ma poi si trasforma
quasi sempre in nazionalismo aggressivo.
Non bisogna mai scordare, infatti, che la nazione (e quindi il nazionalismo) è semplicemente
una creazione del capitalismo finalizzata ad una conquista di mercati sia pur
storicamente delimitati.
Come non bisogna mai dimenticare che la fame di mercati cresce sempre di più man
mano che cresce
l’esigenza di sviluppo dell’economia. Le due cose, il nazionalismo e l’imperialismo,
insomma,
sono intimamente collegate: una, il nazionalismo, è finalizzata all’altra,
l’imperialismo.
Insomma si tratta pur sempre di lotta (impari, è logico) intercapitalista.
Sia chiaro. Noi non stiamo prendendo le distanze dalla Resistenza iraqena per
queste sue connotazioni.
E’ normale che quando si è in una fase storica di monocultura predominante,
e di mancanza di alternative credibili,
un aggredito cerchi la sua alternativa ricorrendo a certezze pregresse, quali
il nazionalismo o la religione.
Noi capiamo che gli iraqeni aspirino a queste certezze, ma non le condividiamo
per i motivi esposti prima.
La nostra critica è verso coloro che sposano queste aspirazioni, pur avendo
il vantaggio
di poterle analizzare criticamente, in quanto non direttamente coinvolti, rifuggendo,
nel contempo,
dal prospettare alternative concrete anticapitalistiche, praticandole in casa
propria.
Come scordare che negli anni ’70 le forze di resistenza palestinese erano praticamente
tutte formazioni laiche e
rivoluzionarie, e che solo dopo il crollo del movimento rivoluzionario in Italia
e in Europa sono sorte le formazioni
integraliste? Cosa significa questo, se non che un forte movimento anticapitalista
può indicare strade
alternative alle lotte iraqena, palestinese, cecena e altre?
Invece niente: ci si limita a fare i tifosi di Stalingrado!
Ma poi siamo così sicuri che la vittoria della/e resistenza/e iraqena/e
sia così determinante per il futuro del pianeta?
Noi pensiamo di no, in quanto trattandosi di guerra (impari) intercapitalista,
il risultato potrebbe al massimo
ridefinire l’assetto capitalistico mondiale, nel senso che potrebbero al massimo
cambiare i rapporti di forza
e fra i contendenti in campo, e fra i contendenti imperialisti.
In parole povere, è chiaro che una vittoria iraqena sulle forze della
coalizione ridisegna i rapporti di forza
fra USA e UE, a chiaro vantaggio dell’UE, e potrebbe, teoricamente, cambiare
gli assetti di stabilità nella regione,
nel senso che l’Iraq, vincitore dell’occidente, potrebbe assurgere al ruolo di
stato guida
(modo edulcorato di dire dominante) nel mondo islamico radicalmente antioccidentale.
Ma mentre il primo caso, quello della modifica dei rapporti di forza fra USA
e UE potrebbe essere probabile,
il secondo caso è molto aleatorio, in quanto non è detto che l’imperialismo
cacciato dalla porta non rientri dalla finestra.
Perchéè vero che negli USA c’è una forte componente (maggioritaria
e poi proveremo a spiegare perché)
che affida alla guerra le sorti del proprio assetto economico, ma è anche
vero che c’è anche la tendenza,
spesso parallela, di aggirare l’ostacolo.
Lo vediamo proprio nella crisi iraqena: durante la guerra dichiarata, le massime
autorità yankees programmavano
già le ulteriori tappe militari, e cioè la Siria e l’Iran.
Quando è scoppiata la pace e cioè quando è cominciata la
vera guerra con i tanti morti amerikani e della coalizione,
gli occidentali hanno cominciato a circuire, con minacce e con lusinghe i paesi
confinanti,
a partire proprio da Siria e Iran, la quale proprio ieri si è detta pronta
ad aumentare, col beneplacito dell’Opec,
la propria produzione di petrolio per calmierare i prezzi in occidente.
Ora cosa succederà quando gli yankees si ritireranno dall’Iraq? semplice!
convinceranno gli iraqeni a collaborare,
forti della collaborazione già avuta proprio dai paesi confinanti.
E, molto probabilmente, anche la modifica dei rapporti di forza fra gli imperialisti,
sarà una modifica concordata.
Perchénon bisogna scordare che il capitalismo nella lotta contro gli esclusi è sostanzialmente
unito.
Non c’è più la tendenza espansiva del capitalismo, che anzi versa
da tempo in una crisi strutturale di difficile soluzione.
Ormai il capitalismo non riesce più a suddividere il profitto anche fra
gli altri ceti; esso ha ormai bisogno
del massimo del profitto.
Il vero motivo per cui gli yankees hanno intrapreso la via della guerra infinita
non è l’allargamento dei mercati
per espandersi, ma il controllo del territorio per potere accrescere il suo profitto
e contemporaneamente tentare di
assicurare a quella fetta di popolazione yankee intimamente legata al sistema
capitalistico un inalterato tenore di vita.
Insomma vogliono arginare la tendenza all’impoverimento progressivo del ceto
medio amerikano, tendenza già in atto
in America come del resto anche in Europa.
E per ottenere questo non possono permettersi alcun piano Marshall in nessuna
parte del mondo.
Questo fatto determina due fattori: da una parte ci sarà una sempre maggiore
inconciliabilità dei ceti
e dei paesi subalterni col sistema capitalistico, dall’altra parte la concorrenza
intercapitalista sarà giocata
non più sul versante del chi riesce meglio ad accontentare i proletari,
ma del chi riesce meglio a dominare i proletari.
Insomma dal capitalismo non ci si potranno più aspettare riprese produttive,
che diano migliori condizioni di vita per tutti,
nétanto meno piani Marshall, ma solo riprese produttive, che accrescano
i profitti per i padroni,
mentre per tutti gli altri ci saranno soltanto guerre preventive e repressione
antiproletaria.
Ed infatti è proprio questo che succede. In campo internazionale tutte
le potenze armano governi fantoccio,
dove riescono a trovarli, o intervengono direttamente in caso contrario.
E questo comportamento non è prerogativa soltanto degli amerikani, ma
appartiene a tutte le potenze mondiali,
ed anche alle potenze di serie B. E’ vero che gli USA, la maggiore potenza internazionale
fanno la parte del leone,
anche approfittando del fatto, che da loro il controllo sociale e repressivo è cosa
ormai consolidata;
ma è certo che anche gli altri si danno da fare: non solo la Russia con
la Cecenia, ma anche l’Europa in vari paesi africani.
E questi stessi stati, che magari, in questa fase, si danno meno da fare (rispetto
agli USA) con le guerre preventive,
si stanno attrezzando alla grande per incrementare il loro interventismo.
E come si stanno dando da fare? Naturalmente con l’inasprimento del comando padronale
sul mondo del lavoro,
ottenuto con la progressiva totale precarizzazione e del lavoro e delle condizioni
di vita, e,
contemporaneamente con l’inasprimento dell’intervento repressivo.
E in questo ambito proprio l’UE è, in questa fase, in prima fila. E’ di
pochi giorni fa che la notizia
che la prima parte della Costituzione europea, che è stata approvata,
non è stata quella riguardante i diritti dei cittadini,
ma quella "contro il terrorismo", con tanto di impronte, di schedatura
dell’iride e altre cosucce di questo tipo.
Cercheremo di fare un’inchiesta su questo. Per ora l’abbiamo citato solo per
far capire verso quale strada
si sta indirizzando quella, che qualcuno poco tempo fa voleva come Europa dei
diritti, ma che invece si prepara
ad essere una nuova fortezza del capitale contro chi vuole metterne in discussione
l’esistenza.
Daltronde non si era già cominciato con le liste nere?
Ed anche in Italia non si sta andando proprio in quella direzione? Ormai da noi
gli arresti e le denunce
per 270bis o ter eccetera diventano sempre più numerose.
Ma anche sul fronte del lavoro è uguale:
licenziamenti, denunce, manganellate a Melfi, precettazioni...ed ognuno potrà aggiungere
decine di sostantivi.
E, proprio mentre scoppia lo scandalo delle torture compiute dagli yankees e
dagli inglesi (solo loro?) in Iraq,
in Italia si risolve il problema derubricando il reato di tortura, purchénon
sia reiterata.
Come dire che le torture degli anglo-amerikani in Iraq da noi sarebbero state
considerate legittime,
purchéchiaramente (?) non reiterate.
Stiamo insomma in una fase in cui il capitalismo ha dichiarato guerra non all’Iraq,
ma a tutto il mondo,
perlomeno a quel mondo che gli si oppone.
A questo capitalismo nella sua intierezza dobbiamo portare la nostra lotta. E’
questo sistema che vogliamo sovvertire,
non una componente di esso. E siccome lo vogliamo sovvertire, vogliamo portare
dappertutto una critica radicale
a questo sistema capitalistico, e non diventare i supporters di qualcuno che
lotta da qualche parte
contro una espressione di questo sistema capitalistico.
Il capitalismo non è un esercito, che si disloca da qualche parte e lì combatte
la sua guerra per il predominio.
Il capitalismo è un sistema economico, che tende a permeare tutto il pianeta
usando le varie armi di cui dispone.
In alcune situazioni usa la scomposizione sociale, in altre la guerra sanitaria(vedi
AIDS in Africa),
spesso la repressione forsennata e in alcuni casi la guerra dispiegata ( e non è detto
che questa sia la sua arma più potente).
Concentrarsi unicamente sulla situazione di guerra dispiegata gli può addirittura
consentire di affinare il suo controllo
sulle altre situazioni.
Infatti a cosa ha portato la tendenza del movimento a concentrarsi per oltre
un decennio sulle guerre in corso?
Mentre noi tutti lanciavamo il più grande movimento ( a livello numerico)
contro la guerra,
il Capitale perfezionava il più grande sistema di controllo planetario,
abituava molti settori di popolazione,
soprattutto occidentale, a vivere in un clima di incertezza e di paura, fomentava
richieste di sicurezza
a scapito della libertà; contemporaneamente affamava sempre più vasti
settori di cittadini,
che vivevano ai margini del Palazzo e li si preparava ad una vita di precarietà e
subalternità ed in alcuni casi di fame,
e in altre zone spingeva alla rassegnazione ed alla morte per fame o per malattie.
In parole povere rafforzava il suo dominio sul pianeta pressochésenza
colpo ferire, visto che il movimento
tendeva a rinchiudersi nella sua voglia di Stalingrado.
E pensare che solo pochi anni fa era nato un forte movimento, che voleva mettere
in discussione non solo
il diritto del capitalismo a portare la guerra in territori lontani, ma il modo
stesso di produzione e di sviluppo capitalista.
E questo era stato un movimento, che con la sua opposizione radicale a questo
sistema globale aveva contaminato
vasti settori di cittadini in tutto il mondo.
Per fare un esempio, il rifiuto degli OGM era diventato maggioritario nel mondo,
ed aveva visto paesi ,
che magari erano alla fame, rifiutare i cibi transgenici, che venivano "gentilmente" offerti
dai mercanti occidentali;
ma avevano anche convinto la maggioranza dei cittadini di tante parti del mondo
a ribellarsi all’invasione di questi "prodotti".
Si era insomma visto come un movimento poteva, pur partendo da numeri molto minoritari,
diventare maggioritario
nella sostanza proprio con una critica radicale al sistema.
E di questo il sistema aveva paura, al punto di buttarsi a capofitto nell’avventura
della "guerra preventiva contro il terrorismo".
Non aveva certo il terrore di Bin Laden o dell’Iraq di Saddam Hussein,
aveva paura di una contaminazione anticapitalista di tutto il Pianeta.
Per il sistema capitalista è sempre 100mila volte meglio affrontare un
pericolo localizzato, identificato,
da ergere come una minaccia non per sé, ma per "il mondo civilizzato",
piuttosto che affrontare una critica radicale al suo sistema diffusa in tutto
il Pianeta.
E il movimento c’è cascato, è entrato in questa logica ed è di
fatto diventato il supporter di un "nemico",
che fa paura a molti. Fa paura a quel ceto medio impoverito e però alla
ricerca di una sicurezza
che ormai non potrà più avere; fa paura all’operaio, geloso della
sua schiavitù lavorativa e fa paura
a quelli abituati a sopravvivere in un sistema che li ha abituati ad un consumismo
che li impoverisce, ma li affascina.
E così il movimento, trasformatosi da anticapitalista in terzomondista,
ritorna ad essere un movimento minoritario,
e non più capace di affascinare tutti coloro che pur sono esclusi da questa
civiltà consumista.
Qualcuno potrebbe obiettare: ma se la critica alla guerra è maggioritaria
nel mondo!
Questo sembrerebbe vero, ma se si va a guardare si scopre che questo rifiuto
della guerra non è un rifiuto
della conquista capitalistica, è semplicemente la famosa "paura di
essere coinvolti", per cui quando poi la guerra scoppia
questo rifiuto si ritira in buon ordine con la segreta speranza che tutto finisca
presto e che presto ritornino
ad affluire i fiumi di petrolio necessari al proprio consumismo.
Contemporaneamente finalmente si riescono a legittimare senza colpo ferire i
prodotti OGM,
si riaprono le fabbriche della morte, che anzi diventano il volano vero dell’economia
e passano senza alcuna reazione
persino del movimento tutte le misure repressive, di cui il Capitale ha bisogno
per consolidare il proprio dominio.
Ma noi niente: continuiamo imperterriti a sognare Stalingrado!
Negli ultimi mesi, diciamo da Dicembre 2003 ad oggi, il movimento si è reso
visibile solo in 3 occasioni:
manifestazione del 20 Marzo, la processione dal Papa del 29 Aprile, e adesso
con la richiesta di mobilitazione
in occasione della prossima venuta di Bush in Italia il 4 Giugno. Insomma tutte
scadenze finalizzate
a solidarizzare con la resistenza iraqena.
Pure nel frattempo sono successe tante altre cose, nel nostro paese, per esempio.
C’è stata la mobilitazione degli autoferrotranvieri, dell’Alitalia e degli
operai di Melfi; c’è stata l’approvazione della Comunità Europea
delle "norme antiterrorismo", c’è stato un’escalation della
repressione non solo contro il movimento,
ma anche a livello sociale e nel mondo del lavoro: e ci stiamo limitando ai fatti
più eclatanti.
Bene su questi temi sicuramente il movimento non si è reso visibile. Ci
sono stati settori di movimento
che hanno solidarizzato concretamente con gli operai di Melfi ed anche con gli
autoferrotranvieri, ma non c’è stata visibilità.
Addirittura non ci si è per niente mobilitati nécontro la repressione
(anzi si è diffusa la tendenza dell’Ognuno per sé)
nécontro l’approvazione delle norme contro il terrorismo e la microcriminalità e
la stessa lotta contro le liste nere si è autoaffossata.
Si è insomma lasciato campo libero al potere in quest’opera di rafforzamento
del dominio.
Tanto, si sa, c’è sempre Stalingrado!
Ma si dimentica che Stalingrado fu resa possibile non solo e non tanto per la
solidarietà dei
Partiti Comunisti internazionali, ma perchési era allargato il fronte
di guerra contro il nazifascismo.
Se non fosse successo questo chiaramente Stalingrado non avrebbe retto, in quanto
ad Hitler sarebbe stato possibile
organizzare un ricambio delle truppe ormai logore e stanche.
E proprio questa dovrebbe essere la vera "lezione" di Stalingrado:
se vogliamo che il Capitale non vinca la guerra,
bisogna allargare il teatro di scontro.
Un esercito, e in questo caso un sistema, perde quando non ha la possibilità di "sostituire
le truppe".
E le truppe non possono essere sostituite, quando ci sono troppi fronti di lotta.
Un po’come succede nel calcio:
quando una squadra è impegnata in troppi tornei, rischia di arrivare stanca
alla fine e non riesce a vincerne nessuno.
Ma per aprire tanti fronti di lotta non ci si può limitare a fare i supporters,
bisogna scendere in campo direttamente,
cercando di dare il massimo con le forze di cui si dispone.
E allora ben vengano gli operai di Melfi o dell’Alitalia. Ma speriamo che venga
anche una capacità di affrontare
in chiave anticapitalista la lotta contro la repressione sociale e contro un
sistema capitalista,
che precarizza i proletari per ristabilire il proprio dominio sul lavoro e nella
società.
Ed invece abbiamo sentito molti contare le pulci alle lotte dei lavoratori, rei
di muoversi
"
per salvaguardare i propri privilegi".
Abbiamo addirittura sentito alcuni chiamare aristocrazia operaia gli operai di
Melfi, cui si rinfacciava la colpa
di aver accettato dieci anni fa contratti capestro. E magari queste critiche
erano fatte da chi, invece, accettava
e sponsorizzava le aspirazioni nazionalistiche o addirittura religiose della
resistenza iraqena.
A questo punto non capiamo più qual’è la discriminante. Non capiamo
più perchéè centrale e progressiva
la lotta di chi persegue il sogno di uno stato iraqeno o addirittura islamico,
mentre sarebbe reazionaria la lotta degli operai di Melfi.
Immaginiamo che non sia la forma di lotta (armata degli iraqeni, rivendicativa-sindacale
degli operai di Melfi),
perchéin tal caso non si capisce la scomunica sempre lanciata contro chi
faceva la lotta armata!
Ma se non è quella la discriminante, allora qual’è?
Che sia la comodità di avere qualcuno che ci toglie le castagne dal fuoco?
Perchél’unica altra differenza che c’è fra le due lotte è quella
della diversa distanza delle stesse.
La resistenza iraqena è lontana, e quindi per loro possiamo solo esprimere
solidarietà
con qualche manifestazione en passant, o, al massimo, con qualche relativo sostegno
economico,
mentre con le resistenze di casa nostra dobbiamo sporcarci le mani, entrare nel
conflitto sociale
e pagare di persona lo scotto alla repressione statale.
Ma, secondo noi, è proprio questo il modo per sovvertire il sistema capitalistico.
10 anni fa un personaggio, che peraltro non amiamo eccessivamente, il comandante
Marcos, fece una richiesta
a chi andava nel Chiapas a portare solidarietà: "se volete aiutarci
a combattere l’oppressione, cui siamo soggetti,
combattete l’oppressione in casa vostra". Non ricordiamo le parole esatte,
ma il senso era quello.
Trasponendo questo concetto alla situazione attuale, si potrebbe dire:" se
si vuole solidarizzare veramente
con la Resistenza iraqena all’imperialismo yanqui, bisogna combattere l’imperialismo
che ci opprime in casa nostra".
Di cose da fare ce ne sono tante, centrali (come la vertenza di Melfi) e locali
(come la lotta a Ravenna
contro inceneritori e basi militari), e non è detto che le prime siano
più importanti delle seconde.
L’importante è che non ci si richiuda nei ghetti ad aspettare le occasioni
per solidarizzare mediaticamente con Stalingrado.

11.05.2004
Collettivo Bellaciao

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