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La storia ci assolverà?

Publie le martedì 4 gennaio 2011 par Open-Publishing

La storia ci assolverà? Le feste natalizie e i buoni propositi per il nuovo anno, partendo da un’analisi, politica e umana, di quanto successo fino ad ora.

In questi giorni di festa, in cui i ritmi della quotidianità si rallentano e cedono il passo al tempo del riposo, accade che vi sia più tempo per riflettere su ciò che si è fatto sino a quel momento, per provare a ragionare su cosa aspettarci dal prossimo futuro. In questi giorni ho avviato una serie di ragionamenti, in ambito prettamente politico, per capire cosa fare: quasi un anno fa ho fatto la scelta di partire da Roma, fermando per un po’ il mio impegno nella politica nazionale, per fare ritorno nella mia città natale, Sassari, da cui ormai 8 anni fa è partita la mia esperienza politica. Ho fatto questa scelta nella consapevolezza di tornare nella “periferia dell’Impero”, nella provincia profonda, lontana dagli echi romani e anche fisicamente separata dal mare.

La mia scelta è stata chiara quanto ponderata: sono stato a Roma, ho acquisito nuove competenze e conoscenze, che avrei potuto mettere al servizio della mia comunità. Ho provato a fare questo, inizialmente, candidandomi in una lista civica di centrosinistra alle scorse elezioni comunali: è stata una bella avventura, ho avuto un risultato più che lusinghiero, ma certo è stata anche un’esperienza utile a discernere le persone di cui ci si potesse fidare (sempre e comunque) da quelle che invece vivono la loro esperienza nel tentativo di rimanere a galla, cercando di rubare l’asse di legno a cui si tengono gli altri naufraghi, come loro, di questa sinistra che annaspa tra i marosi della nostra società. E’ stato utile, perché questo mi ha consentito di prendere alcune scelte chiare: la prima delle quali è stata quella di confermare la scelta fatta nel novembre del 2009, ovvero quella di lasciare il Partito dei Comunisti Italiani, prima per divergenze con la linea nazionale del partito, poi anche per una distanza, ormai visibile, con le modalità di partecipazione locali. E’ stata una scelta difficile perché, nel bene o nel male, questo partito per tre anni è stato una delle mie case, dopo il sindacato, in cui ci si poteva rifugiare per incontrare quelli che, sempre meno, pensavano che il mondo non stesse ancora andando nel verso giusto. Ho visto tante persone andare e venire per quel partito: prima imputavo questo fatto alla loro scarsa voglia di mettersi in gioco poi, dopo plurimi tentativi con alcuni compagni a cui rimango molto legato, di provare ad invertire la tendenza di un partito che, in potenza, avrebbe tutte le carte in regola per radicarsi nella realtà sassarese. L’esperimento è fallito, perché ha trovato, negli organi dirigenti del tempo, i primi avversari di un progetto di possibile “ristrutturazione” del partito, dell’inserimento di modalità democratico-partecipative, della revisione delle moodalità di radicamento sociale e territoriale. Si disse: “Aspettiamo il congresso nazionale” e nel luglio del 2008 congresso fu. Un congresso che disse, a chiare lettere, che il PDCI avesse come obiettivo, in soldoni, il suo scioglimento, che i tempi erano maturi per ricomporre le fratture con il PRC e con altri comunisti dispersi, che l’obiettivo era un unico partito comunista in una grande sinistra unitaria. Poi inizia la mia esperienza romana e, sempre più attratto nelle dinamiche politiche nazionali, inizio a scontrarmi con una visione dei rapporti con i segmenti vivi della società (studenti, sindacato, operai) da me distante. Decido di chiudere definitivamente ogni porta alla mia esperienza nel PDCI quando, invitato ad un’assemblea nazionale di quadri e delegati, il segretario, ieri come oggi come avantieri, Oliviero Diliberto conia la frase “l’importante è fare le tessere. L’importante è avere una tessera più degli altri”, dettando la linea del partito sulla costituenda Federazione della Sinistra, con PRC e Socialismo 2000 (Lavoro e Solidarietà si unirà da lì a breve). Insomma, per l’ennesima volta, non avevamo capito niente, commettevamo l’ennesimo errore di fare l’unità a parole e di attrezzare già le armate (sempre più sgangherate) per fare la “guerra delle tessere”, ultimo e unico lascito di quella grande “battaglia delle idee” che erano prima i congressi comunisti.

Finisce così la mia esperienza da iscritto organico al PDCI, con una divergenza sostanziale con la linea nazionale (corroborata da altri episodi sgradevoli), ma che mi lasciava aperta nella mente e nel cuore la possibilità di continuare a collaborare (“dare una mano”) alla sede locale del partito.

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