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di Tiziana Villani
La diffusione in tempo reale delle immagini, che giungono dalle zone funestate dalla guerra, non è più in grado di produrre quel legame di simpatia che solo le anime belle evocano pronunciando i soliti luoghi comuni del loro pietismo autoconsolatorio.
Se il legame di simpatia non si produce, ciò si deve al fatto che ciascuno di noi è sprofondato in uno stato di narcosi simile a quello di coloro che sopravvivevano nei campi di concentramento o nelle città durante i bombardamenti. Questa fredda distanza che induce a volgere lo sguardo altrove non è nell’oggi frutto di una catastrofe sempre in agguato, quanto di un sentimento diffuso e permanente d’incessanti catastrofi che costellano il quotidiano.
Il vuoto, il desiderare artefatto e omologato, il no future costituiscono il piano dell’essere qui ed ora, senza possibilità di scampo che non sia quella del conflitto permanente e spesso occasionale.
La portata di questo mutamento è tale da impedire il dispiegarsi d’ogni Pietas favorendo, invece, l’insorgere dei fondamentalismi chiamati a misurarsi con la modernità incalzante, e capaci di installarvisi in ragione della tenuta della propria dogmatica che rifugge ogni dubbio, ogni incertezza.
La rivista “Limes” che dell’osservazione e dell’aggiornamento geopolitico ha fatto il fulcro del suo progetto editoriale, nel numero 4 del 97 intitolato La guerra dei mondi. Media globali o media americani?, dedica grand’attenzione ai processi di mutamento degli orizzonti geopolitici in relazione all’affermarsi della comunicazione in rete. Scrive, infatti, Alfonso Desiderio, a proposito del nesso geopolitica e internet: “A prima vista lo sviluppo di Internet sembra sminuire l’importanza della riflessione geopolitica. Infatti, la rete di comunicazione mondiale, di fatto, riduce le distanze.
Consente, una comunicazione più rapida ed economica rispetto al passato e annulla completamente la variabile geografica. [...] Una riflessione più approfondita rivela invece la perdurante attualità della geopolitica. Da un lato, infatti, non è possibile ridurla alla sola influenza degli aspetti geografici, dall’altro Internet crea un nuovo tipo di spazio in cui l’approccio geopolitico mantiene intatto il suo valore”. (p.17)
Ora, il senso di queste affermazioni deve essere quindi ricollegato non solo alla natura dei conflitti in atto, ma alle nuove modalità attraverso le quali si esprimono e sono espressi nel cyberspace. Se partiamo dalla considerazione che l’ideazione stessa d’Internet ha avuto luogo negli U.S.A. nel 1957, per volontà del dipartimento della Difesa, ecco che possiamo seguire lo sviluppo che la rete ha assunto nei confronti e ad opera dei gruppi, delle organizzazioni e anche d’individui che ne hanno saputo trarre vantaggio. Il conflitto si delinea in primo luogo come una mappa il cui limite principale consiste nell’essere sconfessata, nei suoi diversi nodi e connessioni, dalla realtà.
I conflitti della mappatura virtuale che intendono scrivere il territorio sono conflitti in potenza che cercano di governare la dimensione materiale del tessuto territoriale. L’attivazione dell’orizzonte virtuale è spesso messa in crisi da insorgenze particolari che si esprimono attraverso modalità che continuamente fuoriescono dai codici entro i quali le si vorrebbe catalogare. Questa crisi di rappresentazione è al contempo una “crisi di sovranità”. Una crisi che espone l’Occidente ai limiti della propria impresa di descrizione onnicomprensiva del mondo.
Paradossalmente, la crisi del modello occidentale è speculare al diffondersi dei fondamentalismi d’ogni sorta, poiché quest’ultimi paiono molto più in grado di attualizzare il proprio credo rassicurante di quanto non lo sia il sapere laico.
Cinismo e integralismo esprimono, ciascuno attraverso la propria specificità, la risposta allo smarrimento, alla nostalgia e alla povertà del moderno ed anche al suo titanico tentativo di autopromozione mediale. L’angoscia non è più assunta in qualità di percorso che occorre attraversare, essa viene respinta e con essa il progetto, in questo modo il cinismo vince sulla creatività e sul pensiero poiché si fa a lato, diviene marginale mentre i meccanismi di sussunzione affermano il proprio volto totalitario.
Ma se il conflitto è la realtà endemica della modernità, bisognerà ora domandarsi in che modo questo viene regolato? Il controllo militare del territorio come esercizio di polizia appare sempre più insufficiente, i movimenti convulsivi che si scatenano su scala locale non possono essere sedati con le micidiali armi di cui si dispone, pertanto si ricorre a strategie diverse come nel drammatico caso del teatro di Mosca. Quindi il disseminarsi dei conflitti su scala diversa innescano iter diversi che al contempo si tenta di circoscrivere attuando strategie diversificate, ma non per questo meno micidiali. Contenimento, circoscrizione, diffusione di immagini in questo modo si tenta di esercitare una sorta di controllo a distanza dei conflitti.
A questo punto è necessario cercare di individuare quali siano i fattori scatenanti e più ricorrenti dei conflitti in atto.
La crisi di identità, di appartenenza, condizioni di vita segregate o marginalizzata si accompagnano ad una funesta incapacità/impossibilità di essere progettuali e dunque liberi, ossia capaci di vedere ed individuare spazi non omologati, da ultimo si tratta di deperimento della potenza dei corpi. Intendo il termine progetto non tanto come radicale modificazione dello stato delle cose, quanto come espressione di bisogni, aspirazioni tesi ad esprimersi creativamente nel mondo.
L’annichilimento della tensione creativa è data dalla totale riduzione dell’uomo a merce, dispositivo di scambio, macchina di consumo, automa senziente. A quest’inclinazione di assoggettamento senza speranza si contrappone quello della ricerca, del sapere, della capacità erratica o di “transito” secondo la formulazione di Mario Perniola: “Il transito non è un movimento verticale nel tempo che trascende il presente verso il passato, nel ricordo, o verso il futuro, nella previsione: non abbiamo più memoria, né attese. (...)
Il transito è un movimento orizzontale che va dal presente al presente”. 1 Se è dunque vero che il mondo non ha più un centro né una periferia quest’orrore che non vedo ma mi scorre dinnanzi, che non comprendo ma subisco, in realtà mi appartiene perché è della mia carne, perché mette in questione barriere e salvaguardie che si è chiamati ad edificare in vista di una difesa impossibile. Siamo tutti profughi, e il naufragio non posso più osservarlo da una postazione sicura o altra, come ben osserva Blumenberg, poiché siamo tutti nella stessa barca, o forse siamo la barca stessa. 2
La diffusione mediatica degli orrori e delle tragedie causate dal movimento senza tregua dei fuggiaschi, degli esuli, degli emarginati non è in grado e nemmeno vuole produrre alcuna comprensione. Mai come nel presente il mondo appare travagliato dall’orrore che si consuma ovunque, nelle forme più disparate, tra le mura domestiche, sui cavalcavia delle strade, nella deportazione di bambini a cui vengono spiantati gli organi, alle torture, alla barbarie che annulla ogni possibilità di stupore.
Siamo tutti musulmani? A questa domanda che s’impone se si accoglie l’insegnamento tremendo di Primo Levi è necessario rispondere. Non è certo una comprensione artificiosa delle cose quella che può soccorrerci in questo presente, occorre spingersi nella modernità fino all’estremo, interrogarne le pieghe, superando la vertigine della totale perdita di senso di tutte le cose.
La crisi dei valori di autoriconoscimento e di appartenenza rompe il patto sociale, non più uomini liberi, ma automi alla disperata ricerca di un approdo.
Ecco che il territorio, un territorio mitico venduto e propagandato alla stregua di ogni altro prodotto, diviene il motivo del contendere. Così nella rivolta di Los Angeles, come nell’ex-Jugoslavia nel tentativo disperato e delirante di scrivere e riscrivere linee di demarcazione, frontiere. La logica dei lager assume in questo senso il significato di una prova generale. A questa tecnica totalitaria Adorno aveva dedicato alcune riflessioni che possono consentirci di inquadrare più precisamente il problema: “La tecnica dei campi di concentramento tende ad assimilare i prigionieri ai loro custodi, a trasformare gli assassinati in assassini. [...]
Del resto i fautori della tolleranza unitaria sono sempre inclini all’intolleranza verso ogni gruppo che non si adatta: con l’ottuso entusiasmo per i negri si concilia l’indignazione per l’inciviltà ebraica. Il melting pot era un’istituzione del capitalismo industriale scatenato. L’idea di finirci dentro evoca il martirio, e non la democrazia. 3
Se il lager costituiva una sorta di territorio altro, perfettamente compartimentato, governato da una rete di rapporti gerarchici ufficiali e da un’altra di rapporti ufficiosi, in esso possiamo scorgere un primo tentativo di riduzione dell’uomo a cosa, a merce residuale.
Nell’oggi la logica che sottintendeva all’edificazione dei lager oltre ad essersi diffusa in ogni angolo del mondo replicando le stesse atrocità cui assistiamo pacificati all’ora di cena quando vanno in onda i telegiornali, essa si accompagna ad un tentativo più sottile di estendere questa pratica all’intera realtà mondiale grazie alla messa in opera di varie strategie di assoggettamento.
Le pratiche discorsive, confessionali, mediatiche non si limitano più a definire e strutturare i comportamenti sociali, esse si spingono ben oltre insidiando la sfera dei desideri, delle emozioni, degli affetti, delle inclinazioni. Tutto viene mostrato, posto in superficie, reso oggetto di scambio e dunque depotenziato. Torniamo così a quella sfera del desiderio contraffatto che era stata posta come fautrice del conflitto. Nulla viene lasciato al caso, una tremenda visibilità espone anche il più recondito dei pensieri sulla scena dello spettacolo mondiale permanente di cui tutti siamo al contempo attori e spettatori, cavie ed aguzzini.
L’esigenza di esporre e mercificare ogni cosa, di cosalizzare il mondo, altro non è che la versione odierna del lager diffuso, per questo motivo la natura stessa dei conflitti non può più essere paragonata alle guerre e ai conflitti del passato.
I conflitti odierni si collocano in questo specifico tessuto di rapporti di potere. A un potere capillare e disseminato si accompagnano conflitti e insorgenze locali ma entrambi non si possono strappare dallo stesso orizzonte cui appartengono.
Saccheggi, stupri etnici, massacri di bambini, inedia, aiuti insufficienti, osservatori inerti, rutilante gioco delle parti che impedisce di comprendere chi è l’amico e qual è il nemico dato il rapido mutare delle posizioni: è questo il movimento di gestazione che tende a preparare il nuovo assetto mondiale.
Attraversare tutto questo significa vivere nella catastrofe, ed è un vero e proprio lutto quello che l’essere è chiamato ad affrontare, un lutto di cui non si spesso consapevoli, ma che non risparmia nessuno.
Al di là d’ogni fasullo piagnisteo di circostanza, occorre andare ancora più a fondo, la necessità di regolare il sistema-mondo come un lager dagli impercettibili ordinamenti è da ricercare nel collasso dei poteri tradizionali, oramai incapaci di interagire con un’articolazione sociale sempre più complessa, inoltre le modificazioni in atto avvengono con una velocità inconcepibile per le epoche passate.
Né patria, né famiglia, né casa tutto ciò appare sconquassato dalle recenti evoluzioni. Senza passato l’umanità pare incapace di trovare la meta, per questo miticamente rifonda i miti dell’origine e di un ritorno in verità impossibile.
Se lo sradicamento costituisce una minaccia esso è al contempo un eccesso, l’estremizzazione dello stato delle cose che può liberarsi del mito della terra promessa e cogliere la libertà, l’esercizio di verità come fondante dell’essere nel presente. Infatti, se il divenire dei conflitti si configura come reticolare anche le tensioni egemonizzanti del potere sono chiamate a cogliere questa sfida la cui posta in gioco sono gli spazi che costituiscono nell’oggi condizioni fluide, veloci, sempre dislocate e mai realtà date in modo definitivo.
Una simile condizione è stata ben espressa da alcuni scrittori cyberpunk, sopratutto in un bel racconto di Tom Maddox, Occhi di Serpente. Il serpente è al contempo quell’automatismo di cui ci siamo occupati e l’eccesso, l’incompatibile non più in un luogo distante, ma intessuto nella carne, organo, compresenza: “Charley Hughes intervenne: “Anche se il serpente non può essere rimosso, possiamo tentare di soggiogarlo.
Le tue difficoltà provengono dalla sua natura non civilizzata. I suoi appetiti sono primordiali” 4. Appetiti primordiali, automatismi, conflitti disseminati paiono delineare un presente oscuro eppure in esso le logiche della trasformazione non sono bloccate, riconoscere questi meccanismi è il primo passo che permette di confrontarsi con essi ed eventualmente di superarli.
Note
1. Perniola M., Transiti, Bologna, Cappelli, 1985, pp. 8-9.
2. Cfr. Blumenberg H, Naufragio con spettatore Paradigma di una metafora dell’esistenza, Bologna, il Mulino, 2001.
3. Adorno T.W., Minima moralia, Torino, Einaudi, 1954, p.98.
4. Maddox T., Occhi di serpente, in Mirrorshades. L’antologia della fantascienza Cyberpunk, Milano, Bompiani, 1994, p.51.