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Pensioni e diritti sociali secondo il Corriere della Sera
par comiromanord
Publie le lunedì 12 settembre 2011 par comiromanord - Open-Publishing2 commenti

E’ a mio avviso scandaloso quanto scrive il prof. Maurizio Ferrera sulla prima pagina del Corriere della Sera di lunedì 12 settembre 2011. Già attraverso il titolo dell’editoriale “Le verità nascoste dello Stato sociale”, il prof. Ferrera presume di aver individuato gli elementi critici del Welfare nostrano per poi abbandonarsi all’interno dell’articolo alla diagnosi e alla ricetta sul bilancio pubblico tesa ad evitare “una bancarotta collettiva”. Ma vediamo di scendere in dettaglio nell’analisi che il cattedratico milanese ed editorialista propone ai lettori del corriere.
Dopo aver fatto una distinzione tra diritti civili/politici e diritti sociali, il prof. Ferrera scrive: “Dato che al mondo non esistono pasti gratis, i diritti sociali non possono essere considerati come delle garanzie immodificabili nel tempo. Il loro contenuto deve essere programmaticamente commisurato alle dimensioni della torta di cui si dispone e all’andamento dell’economia e della demografia..” .
Si potrebbe già fare una prima obiezione all’assunto del prof. Ferrera. La sua teoria sulla comprimibilità dei diritti sociali potrebbe avere qualche fondamento generale se applicata nei paesi in via di sviluppo ma diventa, a mio avviso, iniqua e faziosa se calata alla specifica situazione socio-economica del nostro paese. L’Italia è la settima potenza mondiale e potrebbe essere in grado, attraverso un’adeguata politica economica ed un’equa distribuzione delle risorse, di garantire pienamente quei diritti sociali che l’editorialista del Corriere individua come il nodo da comprimere per risanare il bilancio dello Stato.
Ma Maurizio Ferrera si spinge oltre nella sua analisi arrivando sulla questione dell’età pensionabile a posizioni, a mio avviso, di estrema dissennatezza e cinismo. Ferrera scrive: “Questo divario (tra diritti previdenziali e obblighi contributivi e tra età pensionabile e speranza di vita ndr) ha finito per generare una vera e propria cultura della spettanza senza condizioni: l’aver lavorato per 35 o 40 anni , indipendentemente dalla congruità dei contributi versati, è diventato il presupposto fondativo dell’accesso alla pensione”. Un presupposto, secondo Ferrera, la cui insostenibilità culturale e finanziaria sarebbe stata nascosta colpevolmente ai lavoratori italiani da sindacati, governi e opposizioni.
Quindi per l’editorialista del Corriere della Sera esisterebbe un vizio a monte nei diritti acquisiti alla previdenza e tra questi vizi ci sarebbe anche l’automatismo tra 35 o 40 anni di attività lavorativa e l’accesso alla pensione. In questa analisi lacunosa ed eccentrica nulla dice Ferrera del diritto che sta a monte di questi ragionamenti e cioè del diritto al lavoro che è “presupposto fondativo” della Costituzione della Repubblica Italiana e del diritto alla Salute (art. 32) profondamente connesso con la qualità della vita e l’usura psicofisica di numerosi mestieri e professioni..
Ma quando Ferrera parla delle “dimensioni della torta di cui si dispone” e di “torta da spartire”, è come se rimuovesse completamente la situazione oggettiva ed evidente di ingiustizia sociale che caratterizza tutte le politiche economiche messe in atto dagli ultimi governi.
Come fa un brillante cattedratico di fama internazionale, studioso delle Politiche Sociali e del Lavoro, ad omettere nella sua analisi altri elementi altrettanto importanti come, ad esempio,….. LEGGI TUTTO SU:
http://www.ciardullidomenico.it/ARTICOLI/ferrerapensioni.htm
Messaggi
1. Pensioni e diritti sociali secondo il Corriere della Sera, 12 settembre 2011, 19:30, di marco di padova
vorrei tanto sapere se i nostri politici si pongono il problema delle persone che hanno perso il lavoro dopo 33 anni e 8 mesi; faccio 61 anni a giugno 2012 per la pensione di vecchiaia mentre mi spettava a gennaio 2013 ma dovrò ancora aspettare sei mesi in piu. Mia moglie è pensionata e viviamo ai limiti di poverta se anche io non posso andare non posso vivere piu perche’ sono non ho piu un euro.
Mi domando ci pensano a queste cose oppure bastano che urlano tutti a 65 anni in pensione, pensateci bene i diritti acquisiti non si devono toccare
1. Pensioni e diritti sociali secondo il Corriere della Sera, 15 settembre 2011, 10:31, di Francesco Zinna
È in atto, da qualche tempo, una campagna mediatica, non massiccia ma ricorrente, tipo gutta cavat lapidem, orchestrata da un manipolo di quotati giornalisti (pochi ma determinati), i quali, avvalendosi di mezzi di informazione di portata nazionale, operano isolatamente ma come a passamano, su una questione che devono avere interesse a tener desta: le pensioni di anzianità.
Eliminate, ormai da tempo, le cosiddette pensioni baby, è stata elevata in diverse riprese, seppure in misura parziale, l’età pensionabile, che si vorrebbe sottoposta a un innalzamento più rapido in rapporto alla dilatata aspettativa di vita. In realtà, ne muore di gente a breve distanza dal pensionamento! Ma, si sa, sono le statistiche che contano, il pollo di Trilussa fa sempre testo.
Scopo primario di tale ‘campagna’, più che l’età pensionabile in sé, è far sì che si attui l’assalto alla diligenza delle pensioni di anzianità già erogate, intaccando i diritti acquisiti, che non vengono considerati “intoccabili” e che si tende, falsamente, a far apparire come “privilegi”. Sembra strano, ma tale questione viene, per lo più, ripresa allorché si assista al montare dell’indignazione popolare nei riguardi dei costi della politica, della sua elefantiaca impalcatura e degli enormi privilegi (questi si, realissimi) di cui godono parlamentari, presidenti, assessori e consiglieri regionali, consulenti vari etc. Quasi a voler distogliere l’attenzione dal problema di tali “costi”, spostandone l’asse verso un settore notoriamente debole qual è quello dei pensionati, il cui reddito è possibile grattare in maniera facile e diretta, con il meccanismo delle “trattenute alla fonte”. Ed è un gioco che si comprende fino a un certo punto, dato che gli articoli, a volte aggressivi, su dette pensioni, registrano, in alcuni casi, le stesse firme di giornalisti in passato tonanti contro i privilegi dei politici. Forse la questione è più sottile di quanto non appaia. Ѐ un’ipotesi: fino a quando dei privilegi dei professionisti della politica e dei costi di questa si parla in astratto, per suscitare clamore mediatico, bene, fiato alle trombe. Quando, invece, se ne comincia a parlare in termini di concretezza e di fattibilità, ventilando provvedimenti legislativi, allora non c’è di meglio che rivolgere l’attenzione altrove e battere il chiodo delle pensioni di anzianità.
Ma vediamo quali sono i termini della questione, anche dicendo cose che possono apparire scontate. Il pensionamento è un patto tra un datore di lavoro e un cittadino, stipulato sulla base di vigenti leggi dello Stato (che può essere esso stesso il datore di lavoro, come nel caso del pubblico impiego), il quale decide (democraticamente, vale a dire per volontà di un parlamento, che è sovrano) quel che, in materia, ritiene di concedere ai cittadini. Ѐ lo Stato che fa i suoi conti, secondo valutazioni economiche e politiche, in materia di pensionamento, e li trasforma in legge. Nella fattispecie: è lo Stato che dice al cittadino, in un dato periodo: se possiedi tali requisiti e chiedi il pensionamento anticipato, ti penalizzo di tanto e ti garantisco tanto.
Ed è evidente, secondo il concetto stesso di pensione, che le garanzie concesse a un cittadino che si collochi in quiescenza in base a quella pattuizione, abbiano validità fino a quando la persona si mantenga in vita e secondo le clausole stabilite, dovendosi escludere che, in un determinato momento, lo Stato deroghi ai suoi obblighi nella misura che dovesse ritenere più conveniente, essendo peraltro il soggetto più forte. Si tratta, a ben vedere, di una questione, più ampia, che va oltre il problema delle pensioni e che riguarda lo Stato di diritto e la sua credibilità. Non si cambiano le carte in tavola dopo, quando l’altro contraente non è più in grado di ripensarci su o di provvedere. Uno Stato che si comportasse in tal modo, non potrebbe considerarsi né democratico né affidabile.
È per questo che i diritti dei pensionati sono “acquisiti” e non sono “cosiddetti” ma reali e, per l’appunto, intoccabili, piaccia o no. Va da sé che, per l’avvenire, lo Stato è liberissimo, anzi ha il dovere, di regolarsi in armonia con le proprie esigenze, operando ex nunc (non ex tunc !), ovvero da ora in poi, nel rispetto dei fondamentali valori di civiltà giuridica e nella tutela dei destinatari della norma. Se non si possono cambiare le regole del gioco mentre una partita è in corso, a maggior ragione non è possibile cambiarle dopo che la partita si sia conclusa, addirittura da parecchio tempo.
Una norma non può avere effetto punitivo per un comportamento di cui il destinatario della norma non possa considerarsi colpevole, né a priori né a posteriori. Un cittadino non può essere punito per essersi avvalso, in precedenza, di una norma dello Stato. Sarebbe un assurdo giuridico. E quand’anche, in un determinato momento storico, lo Stato si fosse comportato in maniera avventata nel varare una data norma, non si potrebbe far ricadere sul cittadino che se ne sarebbe avvalso l’avventatezza dello Stato.
Ma nel caso specifico lo Stato non si era comportato in modo avventato: una logica c’era. Nei decenni successivi al dopoguerra fin quasi alle soglie del nuovo secolo, lo Stato aveva cavalcato la tigre dei pensionamenti anticipati poiché quello era ritenuto un criterio opportuno per contribuire a combattere la morsa della disoccupazione. Erano valutazioni politiche che avevano dato, almeno fino a un certo punto, i loro risultati. Non è colpa dei pensionati se, col passare degli anni e con le mutate situazioni storico-politiche ed economiche, quella logica non regge più. Non pochi sono stati, inoltre, i casi di pre-pensionamenti effettuati nell’esclusivo interesse di varie amministrazioni e persino contro lo stesso volere degli interessati.
Allo stato attuale vige ancora, ad esempio, una macroscopica anomalia, inutilmente denunciata dai sindacati: il connubio tra previdenza e assistenza, che aggrava le spese previdenziali, a vantaggio di qualcosa che alla previdenza non è pertinente, poiché i cosiddetti ammortizzatori sociali previdenza non sono, la cassa integrazione non ha nulla a che vedere con le pensioni, così come la previdenza non è assistenza: è salario differito, è un diritto: acquisito, sissignori, nel momento in cui si va in pensione secondo le norme dello Stato: non è una elargizione, non è un fatto assistenziale, non è elemosina o mancia, ad libitum di chi la eroga.
Il fatto, poi, che i pensionati di domani fruiranno non più del sistema ‘retributivo’, più generoso, bensì del ‘contributivo’ meno vantaggioso, non giustifica un impoverimento delle pensioni di anzianità (ma col medesimo sistema furono ottenute anche quelle di vecchiaia) per rimettere in sesto le cose. Un sistema contributivo secco, per così dire, non garantisce una serena vecchiaia a nessuno. Quel meccanismo, sotterraneamente infido, va corretto. La soluzione non risiede nel grattare le pensioni ai cosiddetti padri, perché questo non salverebbe né i padri né i figli e in ogni caso riproporrebbe intero il problema per i nipoti, senza più nessuno a cui poter grattare qualcosa. Lo Stato non eluda al proprio dovere di essere Stato sociale, poiché o è tale o non è. Ad esempio: ogni somma ricavata dall’elevazione dell’età pensionabile sia destinata alle pensioni dei giovani, non a scomparire nella voragine dei debiti statali! E così via.
C’è di più. È giusto che si adegui l’età pensionabile alle nuove aspettative di vita, ma non si può fare colpa a coloro che già sono in pensione se tale aspettativa è aumentata. Non venisse in mente a qualcuno di raccogliere i pensionati che perdono tempo a tirare le cuoia, in apposite case di concentramento, magari truccate da case di riposo, come erano truccati da campi di lavoro i lager nazisti! Del resto i nazisti miravano al denaro degli ebrei. E qui è il denaro dei pensionati a far gola.
C’è un’alternativa già da tempo ‘serenamente’ attuata da parte dei vari governi. È quella dell’impoverimento lento e sistematico, attraverso il micragnoso meccanismo dell’adeguamento delle pensioni al caro-vita, calcolato, a distanza di un anno, sull’inflazione programmata e non su quella reale, con un calcolo inadeguato e parziale, secondo il quale l’indice di inflazione è corrisposto al 100% fino a tre volte la pensione minima INPS, per cui a meno di 1400 euro al lordo si è considerati ufficialmente ricchi e tale indice decresce nelle fasce successive, fino al 90%, al 70% e infine a zero. La modesta somma che se ne ricava è a sua volta erosa dagli aumenti delle addizionali IRPEF imposte da Regioni e Comuni, sicché le pensioni sono di fatto congelate o ridotte. Con la recente manovra finanziaria del 2011 tale meccanismo sarà ancora più rigido e ulteriormente accentuato il congelamento (solo 50% per la seconda fascia ed è subito zero), a fronte del previsto considerevole aumento delle addizionali nei prossimi tre anni (fino a 300 volte!).
Oltre al danno, la beffa: l’adeguamento al caro-vita, invisibile poiché reso tale “alla fonte” dalle addizionali degli enti locali, va a incrementare il reddito lordo del pensionato, che appare ogni anno virtualmente più “ricco” dell’anno precedente: ricco di soldi non visti, ricco delle proprie tasse, delle proprie trattenute. Al lordo è più ricco, al netto impoverisce sempre più e tale impoverimento ottiene un duplice scopo: aiuta lo Stato a far cassa (facendo la cresta sulla spesa dei pensionati) e logora il pensionato, a sua volta già logorato dai problemi della vecchiaia, favorendone la scomparsa quanto prima possibile.