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Dazibao Elezioni-Eletti America Latina Valerio Evangelisti
di Valerio Evangelisti
Porfirio Díaz ebbe a esclamare: “Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti!” La stessa frase mi viene alla mente da qualche giorno, dopo una clamorosa quanto sgangherata frode elettorale che si è consumata in quel paese sotto gli occhi di tutti, e che ha avuto il proprio culmine giovedì 6 luglio alle 15,14, ora locale.
Ne parlo perché ricorda da vicino qualcosa che è accaduto di recente anche in Italia, sebbene da noi, all’ultimo minuto, il disegno sia saltato (stando almeno ai giornalisti che, sotto lo pseudonimo “Agente italiano”, hanno di recente pubblicato il romanzo-verità Il broglio, Aliberti editore).
In Messico erano in competizione per la presidenza della repubblica cinque candidati, di cui solo tre significativi: Andrés Manuel López Obrador detto AMLO, del Partito della rivoluzione democratica (PRD), socialista moderato; Felipe Calderón del Partito di azione nazionale (PAN), conservatore e con agganci all’estrema destra cattolica; e Roberto Madrazo, di ideologia imprecisabile, del Partito rivoluzionario istituzionale (PRI): il partito ex unico che ha governato il Messico per settant’anni, tra elezioni fasulle e continui casi di corruzione.
La campagna elettorale messicana è stata lunghissima, sei mesi e passa, e di una sporcizia incredibile. Si è capito fin dall’inizio che Roberto Madrazo, alla guida di un partito in condizione comatosa, era fuori gioco: ogni apparizione pubblica suscitava tenerezza nei suoi riguardi, tanto era goffa. Ma era la campagna in sé a essere assurda. Il presidente Vicente Fox (ex presidente della Coca Cola, una sorta di Berlusconi in formato messicano), in teoria neutrale, non perdeva occasione per intervenirvi. I dibattiti televisivi fra candidati presidenziali avvenivano tra sventolii di foto e documenti in cui si dimostrava come l’avversario fosse un evasore fiscale o un ladro vero e proprio. Tuttavia era soprattutto López Obrador il bersaglio.
Una serie martellante di spot (poi proibiti, ma dopo che il danno era fatto) lo presentava come un nemico della nazione; montava sue immagini con quelle di Hugo Chávez che riceveva un carico di fucili russi, per suggerire che i due avrebbero fatto saltare il continente (tipo il malvagio francese nell’orribile film The Legend of Zorro); lo si accusava di spreco di denaro pubblico quando era sindaco di Città del Messico, per via del suo programma di assistenza a favore di anziani e donne sole, e di essere sicura fonte di disastro economico.
Una sintesi delle accuse maggiori e minori contro López Obrador, con la dimostrazione della loro infondatezza, si può leggere qui.
Il candidato della sinistra (più che moderata, ripeto, anche se mille volte più radicale della nostra) aveva contro la confindustria messicana, i vertici ecclesiastici, il potente monopolio tv Televisa (l’altra rete principale, Tele Azteca, equivalente tv del nostro Novella 2000, era un po’ meno ostile, per quanto altrettanto di destra). Per reagire al linciaggio scelse una strada diversa: comizi un po’ ovunque, ogni giorno; fino a girare tutto il Messico.
Va detto che non mancavano nelle sue proposte i toni populistici, le promesse vaghe, gli impegni fatti per accontentare e difficili da mantenere. Ciò malgrado, lo stile era diverso. Disertò il primo dibattito televisivo. Quando si presentò al secondo, sembrò assecondare lo stile volgarmente denigratorio degli altri candidati. Rinfacciò infatti a Felipe Calderón di avere, mentre rivestiva incarichi di governo, commissionato servizi pagati profumatamente a suo cognato, proprietario di varie società di software. Il cognato non aveva nemmeno ritenuto di denunciare quegli introiti fra i redditi delle sue imprese.
La differenza tra la denuncia di AMLO e quelle, a casaccio, degli altri candidati, era che la sua poggiava su prove solide. Peccato che allo stesso “cognato scomodo” e alle sue società sia stato affidato il trattamento dei dati elettorali.
Così torniamo al tema precipuo. Il 2 luglio si vota. Subito parte il conteggio del Programma dei Risultati Elettorali Preliminari, elaborato dal “cognato scomodo”. Il risultato è assurdo. Gli exit polls e i sondaggi davano in testa AMLO di una percentuale variabile fra i 3 e i 6 punti percentuali. Invece si parte con Calderón in testa (“casualmente”, il PREP ha iniziato lo spoglio dalle regioni in cui era vincitore), contro ogni previsione, poi la forbice si assottiglia. Prima che si chiuda troppo, un portavoce di Calderón ha modo di dichiarare, a urne ancora aperte, che il candidato conservatore ha vinto. L’ultima fase dello scrutinio è drammatica, perché AMLO comincia a perdere voti con una regolarità surreale e costante, mai vista in un’elezione (salvo quelle italiane recenti). Alla fine Calderón prevale, sia pure per soli 400.000 voti (su 41 milioni).
Nelle ore successive è il caos. Nei calcoli del PREP, tre milioni di schede sono semplicemente scomparse, se la percentuale degli elettori è esatta. Un milione sono quelle annullate: cifra mai raggiunta nella storia del Messico. In certe sezioni avrebbe votato il 102% degli aventi diritto, in altre il 105%.
Messo alle strette, il PREP rivede i calcoli ed è costretto ad accordare ad AMLO alcune decine di migliaia di voti in più. Resta comunque sotto Calderón
Secondo la legge messicana, la designazione del presidente della repubblica spetta all’IFE (Istituto Federale Elettorale), anche se l’assunzione di funzioni avverrà solo in dicembre. L’IFE è incaricato del controllo dei registri delle sezioni elettorali. Qualche mese fa, l’Istituto è stato affidato a un uomo di Fox, cioè di Calderón. La gestione elettronica dei risultati spetta ancora alla società del “cognato scomodo”.
Ed ecco ripetersi il “miracolo”, se vogliamo chiamarlo così. Di nuovo la forbice, però invertita. Si parte da un vantaggio di López Obrador, che si riduce durante lo spoglio in maniera lineare, senza alcun sussulto, fino a tracciare un cono quasi esatto. Vince Calderón, ovviamente, per un pugno di voti di percentuale pressoché pari a quella fissata dal PREP, con tutte le sue approssimazioni. E Calderón viene proclamato vincitore. La borsa messicana ha un’impennata. Wall Street applaude.
Peccato che ci siano alcune anomalie statistiche.
Fra tutte una. Si direbbe che, fino al conteggio del 71% dei voti, gli elettori votassero unicamente per Calderón o López Obrador, senza che in nessuna sezione gli altri candidati ottenessero un solo suffragio, magari espresso per sbaglio. Quando poi si arriva ai residui votanti, questi, a prescindere dallo Stato a cui appartengono (e il Messico è enorme, e politicamente vario), esprimono le stesse preferenze, seggio per seggio.
Qui mi fermo, però con tre considerazioni conclusive:
– López Obrador ha annunciato che ricorrerà al Trife (Tribunale Federale Elettorale). Se fossi in lui, eventualmente vinta la causa, baderei alla mia pelle.
– Il liberalismo dice di avere come fondamento le elezioni democratiche. In realtà, le approva solo quando i risultati coincidono con quelli che auspica (si veda la vittoria elettorale di Hamas in Palestina, e prima ancora il suffragio in Algeria). Liberalismo ed elezioni sono variabili indipendenti;
– La frase di Porfirio Díaz che ho citato in apertura resta di stretta attualità. Non essendo possibile spostare il Messico dagli Stati Uniti, spero che sia Dio ad avvicinarsi. Solo Lui, nella situazione messicana, potrebbe garantire elezioni decenti.
www.carmillaonline.com - Articolo pubblicato 7 Luglio 2006