Home > UOMINI E NO, di Elio Vittorini
di Patrick Karlsen
«Ma c’era anche la bambina. Più giù, tra i quattro del corso, dagli undici o dodici anni che aveva, mostrava anche lei la faccia adulta, non di morta bambina, come se nel breve tempo che l’avevano presa e messa al muro avesse di colpo fatto la strada che la separava dall’essere adulta. La sua testa era piegata verso l’uomo morto al suo fianco, quasi recisa nel collo dalla scarica dei mitragliatori e i suoi capelli stavano nel sangue raggrumati, la sua faccia guardava seria la seria faccia dell’uomo che pendeva un poco dalla parte di lei. Perché lei anche?» (cap. LXIV).
Anche questo accadde. A Milano, corso Porta Vittoria, inverno 1944; il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo, ricorda l’incipit del romanzo; ma non è finzione letteraria, non è trasfigurazione. Il fatto è che vi era, nell’uomo Vittorini, un grande imperativo morale: testimoniare la realtà; e vi era un grande dilemma nel Vittorini scrittore: come rappresentare quella realtà; quella di corso Porta Vittoria, di largo Augusto, o delle molte vie e piazze uguali, a Milano e fuori Milano; quella delle rappresaglie, dei massacri di innocenti; quella di un tempo e di un mondo visti dai suoi occhi sprofondare in un tale abominio.
Se ci fosse un modo, se si potesse trovare un linguaggio atto a testimoniare e a raccontare, senza far perdere agli eventi osservati un filo del proprio orrore, neppure un grammo della loro specificità atroce: lo sbocco del dilemma, allora, non è che la ricerca del punto di fusione tra realtà e rappresentazione. E forse, la teoria di catturare il dato reale e imbalsamarlo per sempre in parola scritta, schietta e didattica, è l’ultima speranza elevata che si è concessa la nostra letteratura; l’ultima poetica, nel senso stretto di programma filosofico, al cui fallimento scontato si debba guardare con qualche rimpianto.
Il neorealismo di Vittorini, insomma, nasce dalla disperazione dell’inverno del ’44. Da quella è venuto fuori il libro: la sua storia, fedele alla cronaca; la sua prosa, così tiepida, piana. Che sembra recuperare, per inciso, l’inflessione cantilenante della parlata siciliana di chi l’ha intessuta, tanto è ritmico il suo intercalare, tanto vi è radicato il gioco di ribaltare gli enunciati in speculari contro-domande (es.: «Tu mi vuoi bene. È vero che mi vuoi bene?», oppure: «Te ne andrai via anche questa volta, Berta. Non te ne andrai via anche questa volta?»). Ma è una semplicità di stile, in realtà, con un suo fine ben preciso. Vittorini voleva imprimere le linee essenziali dell’abisso, perché l’enormità del messaggio fosse trasmessa una volta per tutte, senza scorie d’artifici e infingimenti. Pulita, orribile come si è data.
Intorno alla parola e al concetto di “semplicità” convergono chiavi di lettura importanti. Semplicità della resa linguistica come fedeltà della testimonianza: lo abbiamo visto. Col conseguente terrore che prose animose contribuissero alla “letterarizzazione” dell’evento, a sue automatiche incontrollabili alterazioni: ecco le titubanze, le malcelate diffidenze di Vittorini davanti alla prorompente novità di un approccio stilistico alla Resistenza come quello di Fenoglio. Ma poi nelle pagine di Uomini e no, spessissimo, troviamo descritta la semplicità come condizione esistenziale precedente all’orrore; e come riparo dall’orrore. Sono «semplici» intimamente i militanti del Gap (Gruppo di Azione Patriottica): Barca Tartaro, Scipione, Coriolano, il Foppa, sono uomini semplici, che hanno le facce «buone». Qui sarebbe facile leggere una caduta di Vittorini nella raffigurazione retorica, di maniera; quando invece, più che altro, abbiamo il tentativo di rendere esplicita una nozione portante del libro, cioè la coincidenza semantica tra semplicità e assenza di male. Non a caso, il protagonista Enne 2 alterna alla militanza lunghi momenti di solitudine, e in quelli si lascia andare a struggenti memorie d’infanzia, vere e proprie fughe psicoanalitiche alla ricerca di una tregua: perché l’infanzia è il paradiso perduto dell’innocenza, il regno della semplicità battuto dal regno della barbarie presente.
Non c’è dubbio, infatti, che sulla Milano del 1944 domini l’assoluta barbarie; e non c’è alcun dubbio su chi ne sia il più dedito servitore. Non è Giulaj, il venditore ambulante privo di qualunque colpa, che viene portato in caserma e lì denudato sotto gli occhi di tutti; né altri come lui. È piuttosto il capitano Clemm, che dopo un paio d’inutili domande gli aizza contro la cagna Gudrun e lo fa divorare vivo, al grido di fange ihn, beisse ihn (prendilo, morsicalo; capp. CI, CII). Non lo sono gli uomini, le donne, i bambini di corso Porta Vittoria e di largo Augusto, fatti cadaveri per reazione ad un attentato del Gap, ed esibiti all’attenzione dei passanti; né altri come loro. Lo sono piuttosto i militi repubblichini che tra quei corpi consumano il pranzo, bocche unte d’olio di sardina e teschi cuciti alla spalla delle divise (capp. LXXI, LXXII). Vittorini li definisce antropofagi, e non è faticoso seguirne il ragionamento. Certo è che i nazisti e i fascisti, attraverso il sistema delle rappresaglie, intendevano scavare intorno ai “ribelli” un vuoto di consenso. Ma compiere stragi di civili in risposta alle azioni dei partigiani, in qualche misura, significava parificare idealmente la situazione degli uni e degli altri, appiattirli assieme su un unico sfondo di morte. Lo sguardo attonito della folla – nell’episodio appena ricordato – che si posa ora sui cadaveri lasciati marcire all’aria, ora sui fascisti intenti al loro impudico pasto, ci dice anche questo.
Giulaj, Clemm, Enne 2, i repubblichini, gli altri gappisti: uomini e no. Dove uomini pare riferirsi alla loro comune condizione di esseri umani, e no all’assenza di alternative che quella condizione sottende. Se non si può rifuggire dall’essere uomini, si può sfuggire all’orrore? E vi si può resistere? Alla seconda domanda Vittorini risponde che non solo si può, ma si deve. Ciò non comporta, tuttavia, che alla sua coscienza di uomo intelligente venga fatto di rispondere un sì stentoreo alla prima. Nel suo libro ogni riga è sofferenza, perché ogni riga si arrende a una sofferta evidenza: la trama di cui è composta un’età è più forte della volontà del singolo che l’abita; essa ne cadenza qualunque passo, e cioè ne determina il destino. A Enne 2 non si davano più scelte semplici: era la trama del suo tempo che negava statuto alla semplicità. Lo lasciamo consapevole di morire senza aver per sé la sua Berta; senza che lei prenda il tram e lo vada a raggiungere per un’ultima volta. Scrive Vittorini: «era la cosa più semplice che potesse accadere»; eppure non accade. Perché nella Milano di Uomini e no, accadevano i massacri di corso Porta Vittoria e largo Augusto; accadeva che l’atto moralmente più giusto fosse tutt’altro che semplice; che per resistere si dovesse uccidere.
15.06.2004
Collettivo Bellaciao
Messaggi
1. > UOMINI E NO, di Elio Vittorini, 15 giugno 2004, 16:20
Vorrei soltanto ricordare alle nuove giovani generazioni militanti,un altro scrittore (grande,critico,e mio prof. all’universita di salerno anni 70 ) e compagno di vittorini ,alla rivista politica culturale antifascista dell’epoca,(il politecnico),:Michele Rago,./un vero antifascista intellettuale oggi dimenticato.//.Colgo quindi l’occasione attraverso questa recensione di elio vittorini ,di ri/ leggere ANCHE, gli scritti su gramsci,diderot etc di questo professore(letteratura francese), scrittore che mi ha insegnato e dato coscienza di classe.Ed, in un época particolare e di resistenza, di revisionismi vari ,per la dominazione post fascista ecc.ecc..,credo sia dovere consigliare questi" autori/militanti intellettuali organici, che tanto hanno dato alla nostra generazione///////.ciao bellaciao//////////// "nu" il contrario di un..(masaniello sping’la francese).