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Una gara al ribasso

Publie le martedì 4 ottobre 2005 par Open-Publishing
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Dazibao Stampa Storia Oreste Scalzone

di Oreste Scalzone

Cominciamo da Segio. Ha avuto il piacere di essere l’ultimo a deporre le armi, il comandante Sirio, la stella della lotta armata, che giunge ad ammazzare un piccolo aguzzino per lanciare un messaggio ai ristretti che lottano per un’ora di colloquio senza vetri. Poi finisce dentro ed elabora la teoria della dissociazione ma con il suo stile da capuzziello.

E così è l’intero “partito” che si dissocia: e guai ai militanti che non ci stanno. La fatwa successiva, nelle aree omogenee, è contro il colpo di spugna. Gode dei benefici degli ammittenti e quindi si becca condanne molto minori di quelle che gli sarebbero toccate non dico in un regime non emergenziale ma a un qualsiasi malandrino stracciaculo, senza gravami di reato politico e di finalità sovversiva.

Ma ancora non è contento. E così scrive e pontifica contro i brigatisti, rivendicando la sua traiettoria “fininfondista”: con sfrenata autoreferenzialità è la sua vicenda che determina fino a quando si poteva e si doveva e quando, invece, (lui dentro e quindi fuori dal gioco) chi continua ad andare fino in fondo, perciò stesso, piscia fuori dal sacco.

Seguono le condanne per i dissociati innocentisti, alla Negri, e al tempo stesso contro Scalzone e i pochi esuli per l’amnistia.

Ovviamente, quando poi c’è arrivato lui, con parecchi anni di ritardo, a inchiodarlo alla sua miseria restano le annate di Antigone e del Manifesto* Ma al peggio non c’è mai fine. E così, ciliegina sulla cassata, arrivano le pugnalate alla schiena dei latitanti a Parigi.

Io posso ancora capire l’esigenza di regolare i conti, sia pure maramaldescamente, con i sodali, più o meno ex, i concorrenti diretti, gli avversari di nicchia nel mercato politico: ma Persichetti che c’entra.

Come si permettono, lui, Segio, e Arrigo Cavallina, rispettivamente su Liberation e Le Monde, di scrivere che l’estradizione farà bene a quei disgraziati che così in galera potranno finalmente elaborare il lutto del male procurato. Segio è il paradigma del vogliamo tutto portato al limite dell’abiezione. Ma non è finita: perché di peggio ci sarà sempre il manutengolo di turno. Come Andrea Colombo per Morucci.

A Franceschini non gliel’ha detta nessuno, tranne Scalzone. Neanche ai parenti delle vittime che pure ne avrebbero avuto pieno titolo e competenza. Così è stato per Adriana Faranda. Che appena arrestata nella questura di Roma, per la prima volta, scopre l’umanità di un poliziotto. Poi legge una mia battuta un po’ tranchante sull’ineleganza di un così tempestivo ravvedimento e decide così di retrodatarlo, cambiando un particolare (mangiava un panino, guardava una rondine) ma fissando la folgorazione agli appostamenti che precedono il sequestro Moro.

E poi il tormentone: noi e loro. Cioè lei e Valerio Morucci vs le Brigate rosse. Ma alla vedova o ai figli, pur ricchi di dignità e non ossequiosi alle esigenze della versione ortodossa del Caso Moro, mai è venuto a mente di obiettare: Voi chi? A noi risulta che lei e il suo compagno eravate a tutti gli effetti dirigenti delle Br.


Quelli del Manifesto

Se uno osserva il Manifesto vede all’opera la sindrome Medvedev. A questo dissidente, piuttosto di sinistra, nello stile dei Piliuch, che aveva passato anni nel gulag, quando piano piano cade il moloch, è come se mancasse l’oppressore, il nemico. Forse perché scorgeva nella sua aspettativa una semplice chimera: se uno si attende chissà che, poi vede la parabola di Eltisin e Putin è normale che sia esulcerato. Ma perché la nostalgia, perché restare sempre dentro questa atroce maledizione del due, della comparazione a schema fisso? E nel Manifesto notavi questa deriva in gente come Karol; russo d’origine (o polacco), ebreo, povero, si era arruolato con l’Armata rossa per salvarsi dai rastrellamenti delle armate hitleriane che arrivavano e che aveva partecipato, con il Manifesto, ai convegni di Venezia e di Milano, alla fine degli anni ’70, sulle società postrivoluzionarie, di cui c’è traccia in Metropoli. Ci trovammo una forte assonanza, noi dei Cocori e invece piano piano, un po’ per celia, un po’ per non morire, vedi un meccanismo in lui di tipo psicologico. Quasi che, accettando quell’identificazione, dicesse - siccome adesso lo dicono tutti - che il comunismo è quello là.

Pensate se fosse sopravvissuto qualcuno di quei comunisti italiani come Garlaschelli, l’autore di Una piccola pietra, scappati dall’Italia per fatti d’armi con i fascisti, andati in Russia, e siccome erano internazionalisti e magari vedevano di buon occhio lo sciopero, mandati al gulag come sabotatori e ammazzati come spie hitlero-trotskiste. Delle cose tremende. Ai pochi tornati vivi chi può dare del voltagabbana? Volta te. Ma in questa specie di cosa nobiliare del Manifesto è scattata la paura di andare nel senso della corrente proprio nel momento sbagliato: ancora una volta la maledizione del due. Accettando quasi l’idea un po’ snob che noi potevamo criticare il moloch del socialismo reale ma non adesso che lo possono fare pure i lattai e le portinaie. E poi di nuovo questa cancellazione, lamentata perfino da Flores, delle cosiddette minoranze storiche. Perché quello che non era catalogato nel salottino buono della signora Rossanda non esisteva, e poi la critica tipo il gatto è mio e me lo potevo cucinare io quando mi pareva ma ora no perché rischio di confondermi con i borghesi.

http://orestescalzone.over-blog.com/article-948819.html

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