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Fausto Bertinotti : VOGLIO... uscire dal declino (10)

Publie le martedì 11 ottobre 2005 par Open-Publishing
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di Fausto Bertinotti

Dentro la cornice del fallimento del neoliberismo, si inserisce, con le sue specificità, il caso italiano. Più acutamente la crisi viene vissuta nel nostro Paese perché più radicalmente e più duramente ci si è intestarditi in una ricetta di politica economica votata come asse strategico alla riduzione del costo del lavoro come elemento di fondo per la competizione internazionale. Al contrario, quel che si è prodotta è una crisi così profonda che ha preso la natura della recessione.

E’ il fallimento completo delle classi dirigenti, non solo di quelle politiche, ma di quelle che hanno avuto in mano le redini dei poteri economici: i poteri tradizionali e le grandi famiglie del capitalismo italiano, protetti e agevolati nella loro crescita dalle scelte di governo che quasi sempre hanno orientato e, spesso, dettato.

Il capitalismo italiano, nel mentre sparava a zero contro ogni forma di ruolo pubblico in economia, insisteva ostinatamente sulla necessità di togliere "i lacci e laccioli" del controllo statale e del potere di condizionamento dei sindacati dei lavoratori, invocava le privatizzazioni e, spesso, pontificava sull’inadeguatezza del sistema di governo troppo condizionato dagli egoismo di partito, si ingrassava proprio grazie alle agevolazioni, ai finanziamenti, ai contributi pubblici e stabiliva con il potere politico dei governi rapporti lobbistici, spesso sconfinati con il finanziamento illecito e la corruzione.

Può, quindi, essere riproposta l’espressione del fallimento della "razza padrona", senza più idee e prospettive, incapace di dare risposte ai problemi drammatici di questo nuovo secolo, vittima, come l’apprendista stregone, dei guasti da essa medesima provocati. In questo vuoto, è emerso il protagonismo dei "rentiers", con il loro capitalismo, regressivo

Così ha preso corpo un capitalismo cannibale che, persa la grande sfida della globalizzazione e della internazionalizzazione dei mercati, divora se stesso in una guerra intestina per dividersi le spoglie di un sistema economico sempre più speculativo e finanziarizzato. Le alleanza tra i poteri si scompongono e ricompongono, le cordate possono scorrazzare come velieri pirati all’arrembaggio delle grandi flotte insicure, imperi economici che sembravano solidi, possono essere spazzati via, vittime di quella speculazione finanziaria che avevano assunto come elemento strategico del proprio arricchimento.

Il sistema creditizio, la stessa Banca Centrale e il sistema dei partiti non sono estranei ma, troppo spesso, interni a questa logica perversa.

Dal punto di vista del modello economico e sociale, è fallito il tentativo di trasformare l’Italia in un "Grande Nord Est", assunto come modello vincente nella grande sfida dell’internazionalizzazione dei mercati.

Impossibile ormai l’uso dello strumento della svalutazione, il capitalismo italiano ha fondato nella riduzione del costo del lavoro il moloch cui affidare il compito di reggere la sfida della globalizzazione. Riduzione dei salari, affievolimento dello stato sociale e dei diritti del lavoro, sono stati perseguiti con grande determinazione come gli strumenti che avrebbero permesso di reggere la sfida. Contemporaneamente, con le privatizzazioni, si è scelto di escludere ogni forma di intervento pubblico per orientare le grandi scelte di politica industriale e di sviluppo.

Si è, specialmente in questi ultimissimi anni, denunciato la grave regressione nel nostro Paese della ricerca e dell’innovazione: questa non è frutto di un destino, ma il risultato di quelle scelte.

Occorre, quindi, cambiare radicalmente strada.

Una nuova politica economica passa, in primo luogo, dal ridisegnare un nuovo spazio pubblico di orientamento, intervento e controllo sullo sviluppo economico del Paese.

Vuol dire passare attraverso una modifica strutturale del patto di stabilità europea: assumere nuovi vincoli di convergenza che favoriscano la qualità di una economia che sia socialmente equa ed ecologicamente sostenibile.

Passa, attraverso questa via, la capacità di individuare alcuni nodi di fondo e assi su cui investire con risorse pubbliche nella direzione della ricerca, della qualità, dell’innovazione.

Significa avere un’idea del nostro Paese e della vocazione del suo territorio, della ricchezza delle produzioni agricole, della loro qualità, della valorizzazione del primato culturale e ambientale che l’Italia può far valere.

Vuol dire pensare a interrompere la logica degli incentivi a pioggia alle imprese e, invece, orientare le risorse pubbliche in investimenti in settori strategici, anche di produzioni manifatturiere e industriali, connesse con il risparmio energetico, il trasporto pubblico, le tecnologie più avanzate.

Abbiamo bisogno di una crescita dei salari verso i livelli dei principali Paesi europei, un sistema di protezione sociale e di diritti solido, una istruzione pubblica di massa e di qualità sono funzionali anche nell’affermare un’altra idea dello sviluppo di questo Paese, incrementare la domanda interna ma, soprattutto, produrre saperi e lavori ricchi.

Rifondazione Comunista Parigi (Bellaciao)

se volete contattarci... scrivere qui : bellaciaoparis@yahoo.fr

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