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Condannati a sopravvivere
Berlusconi ha un’anima mercantilistica
di MASSIMO GIANNINI
"NON serve nessuna verifica, la maggioranza è compatta". Il padrone della Casa delle Libertà
nasconde la polvere sotto il tappeto. Ma ormai non passa giorno senza che Berlusconi sia costretto a
puntellare le bordate destabilizzanti di Bossi, a neutralizzare le tensioni autonomiste di Fini, a
parare le stilettate dorotee di Follini. Nel maggio 2001 il centrodestra ha vinto le elezioni
proponendosi al Paese come una "coalizione di governo" da Terza Repubblica: moderna, coesa, innovativa.
Dopo appena due anni e mezzo di legislatura deperisce come un "governo di coalizione" da Prima
Repubblica: vecchio, rissoso, improduttivo.
Ieri il presidente del Consiglio ha speso la sua trasferta a Bruxelles a tentare l’ennesima
mediazione su Roma. Al leader di An, che non arretra d’un millimetro sulla sua proposta d’estendere il
voto amministrativo agli immigrati, il premier dà un sostanziale via libera in Parlamento.
La sua proposta "non rientra nel programma di governo", e quindi non implica "vincoli di
maggioranza". Al leader della Lega, che minaccia le dimissioni da ministro, il premier rinnova una generosa
cambiale nella coalizione: la riforma federalista "rientra nel programma di governo", e dunque
"vincola tutti gli alleati". Di fronte a questi imbarazzati e autoassolutori esercizi d’equilibrismo,
per l’opinione pubblica incomprensibili come arzigogoli bizantini, diventa inutile domandarsi chi
ha vinto e chi ha perso nel "borsino" politico della giornata.
Berlusconi sospirerà per aver guadagnato un’altra tregua armata: l’ennesima, dopo le tante che
ormai si susseguono dalla sconfitta alle amministrative della primavera scorsa. Fini dirà che ha
incassato una plusvalenza: ha affermato il suo pieno diritto a "tornare a fare politica". Bossi si
convincerà d’aver evitato una minusvalenza: resta al suo posto, per non rinunciare alla sua
irriducibile pretesa di "fare le riforme" care alla Padania. Nel complesso, hanno perso tutti. Il governo
tira a campare. Il suo orizzonte si chiude: non è più il 2006, ma diventa il giorno per giorno. Il
semestre europeo lo tiene in vita quasi artificialmente. Ma intanto si dissangua. Si esaurisce.
Per consunzione programmatica e per sfinimento politico.
La crisi, a sondare gli umori dei segretari di partito, è molto più grave e profonda di quanto non
si veda in superficie. Sotto il tappeto della Casa delle Libertà, cova una convinzione scomoda, ma
sempre più radicata: questo suggestivo "esperimento politico" ritentato nel 2001, se mai ce l’ha
avuta, ha perso la sua "spinta propulsiva". Il patto Forza Italia-An-Udc non ha retto e non regge
al ricatto secessionista e lepenista della Lega. La "chimica" dell’alleanza è saltata: non fa
scattare progetti condivisi tra i gruppi dirigenti né immedesimazioni identitarie tra i cittadini.
L’impasto tra moderazione e radicalismo non produce riforme, ma solo conflitti. La proposta del
vicepremier sul diritto di voto agl’immigrati è paradigmatica. Dovrebbe essere il cavallo di battaglia
d’un nuovo centrodestra, coraggioso e dinamico, severo con i clandestini ma solidale con i
regolari. Diventa il pretesto per un regolamento di conti tra "parenti-serpenti", se non addirittura per
un velenoso scambio d’accuse d’"inciuci istituzionali", di "congiure tra Poteri Forti" o
d’"intelligenze col nemico" ulivista.
In teoria, le elezioni anticipate sarebbero lo sbocco più naturale per una maggioranza che ha
smarrito la sua ragione sociale. L’esito tormentato delle crisi politiche del ’94 e del ’98 non lascia
spazio alle staffette o ai ribaltoni. Il bipolarismo italiano, imperfetto quanto si vuole, ha
ormai abituato gli elettori a esigere il rispetto del mandato affidato agli eletti attraverso il voto.
In pratica, questa maggioranza sembra condannata a sopravvivere a se stessa. A durare al di là e a
dispetto dei suoi fallimenti. Per ragioni diverse, le elezioni anticipate non convengono a
nessuno. Il centrosinistra ha appena aperto il cantiere della "Casa dei riformisti", e con Prodi
inchiodato a Bruxelles non può ancora contare su un capo che lo possa amministrare. Il centrodestra vede
vacillare le fondamenta della Casa delle Libertà, e con Berlusconi logorato a Palazzo Chigi non può
più contare su un capo che la possa far rivincere.
Il voto anticipato non conviene al Cavaliere, che in queste condizioni rischierebbe seriamente di
perderlo: la credibilità della sua leadership è al punto più basso, l’inaffidabilità del suo
governo è al punto più alto. Non conviene a Bossi, che ha molto da guadagnare a condurre la sua
crociata identitaria sulla devolution dall’interno della coalizione. A parole rispetta il vincolo di
maggioranza, lucrandone gli onori quando conviene. Nei fatti lo viola, rifiutando di sostenerne gli
oneri quando serve. Per il Senatur è la condizione ideale: un piede al Nord, un pugno nel Palazzo.
Con questa formula, gl’interessa soprattutto una riscossa alle europee di giugno, che lo vedranno
correre da solo, libero e irresponsabile, come piace a lui e alle sue camice verdi.
Elezioni anticipate non convengono a Fini e Casini, che hanno bisogno di tempo per provare a
coronare i rispettivi progetti. Con la proposta di voto agli immigrati il vicepremier imprime
un’accelerazione decisa del processo di traghettamento di Alleanza nazionale verso l’approdo del
popolarismo europeo. Ma è un processo lento. Necessiterà di altre tappe intermedie, prima che si possa
andare "oltre questa destra" e prima che se ne possa incoronare un nuovo leader. Le parole pronunciate
ieri sera da Wilfried Martens sono significative: "Per noi An resta un partito di estrema destra,
il suo avvicinamento al Ppe è del tutto escluso". Con il rilancio della "questione morale" il
presidente della Camera rafforza il suo profilo d’uomo delle istituzioni, che potrebbe persino
proiettarlo ai vertici della Repubblica, più che alla guida d’uno schieramento politico. Ma anche questo
è un processo lento. Necessiterà d’altre prove del fuoco a livello personale, e d’una sequenza di
congiunture favorevoli a livello generale.
Berlusconi è convinto di poter giocare un’ultima carta: quel rimpasto di governo, che ha rifiutato
per mesi e che ora invece si dichiara pronto a offrire agli alleati, dopo gennaio. Il Cavaliere,
come Enrico Cuccia, ha un’anima mercantilistica: è convinto che ogni uomo abbia un prezzo. Spera di
riequilibrare i pesi tra Lega, An e Udc attraverso un altro giro di poltrone. Ma forse s’illude. I
rapporti personali e politici, dentro il Polo, sono così logori che il rimpasto rischia di non
bastare più. An e centristi ormai invocano "un nuovo quadro politico". L’enunciato è ermetico, ma
tutt’altro che oscuro. Vuol dire nuova maggioranza, senza più Bossi. Oppure vecchia maggioranza, ma
senza Tremonti, ideologo e garante del Senatur nella stanza dei bottoni del Tesoro. In tutti e due
i casi, un prezzo troppo alto per il Cavaliere. "Condannato" a governare, ma con un destino già
segnato.