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Bossi costretto alla resa, ma il vero sconfitto è Berlusconi

Publie le venerdì 17 ottobre 2003 par Open-Publishing

ANDREA COLOMBO

Dopo otto lunghissimi giorni, sull’orlo del baratro e della crisi di governo, Berlusconi si è
deciso a rompere il silenzio. Con le sue parole ha siglato la prima vera vittoria di Gianfranco Fini
dal 13 maggio 2001, ha incrinato, sia pure di malavoglia, il legame che lo vincola a Umberto Bossi
ma soprattutto ha platealmente ammesso di non essere più il padrone della Casa delle libertà.

In una partita come questa, a valenza fortemente se non esclusivamente simbolica, ammettere che
sul voto agli immigrati non esiste vincolo di maggioranza significa sposare senza ambiguità la
posizione del capo di An e sconfessare quella del leader leghista.

Non era certo questa la linea del premier all’inizio della vicenda. Il suo punto di vista, subito
dopo il primo annuncio di Fini, coincideva al contrario con quello di Bossi, era caratterizzato da
una franca irritazione nei confronti del vicepremier e dei centristi che lo spalleggiavano. E’
probabile che ieri Berlusconi abbia davvero imposto al senatur la resa, ma prima ancora lui stesso
era stato costretto ad accettare il diktat del suo alleato principale, e sino a questo momento più
mansueto. Un esito diventato inevitabile nel momento stresso in cui il cavaliere ha capito che il
capo di An sarebbe andato avanti anche a costo di affrontare la crisi di governo e le elezioni
anticipate.

Bossi aveva sentenziato che in politica il potere è di chi non teme le elezioni. Dunque, nel
centrodestra, della Lega e del premier, per nulla spaventati dall’ipotesi di un ricorso anticipato alle
urne, a differenza dei pavidi alleati. Il sostegno del premier, immediatamente offerto al leader
nordico anche in quella occasione, deve aver convinto Fini dell’impossibilità di uscire dall’angolo
in cui era stretto sin dalla nascita del governo senza prima andare a vedere il bluff di Bossi. La
scelta del terreno di scontro, quello più indigeribile per il Carroccio, è stata evidentemente
dettata proprio dalla necessità di costringere la Lega a minacciare la crisi, obbligandola così a
scoprire le carte e a confessare la propria paura della crisi e delle urne.

Minare l’onnipotenza di Bossi senza prima svelare il suo bluff sarebbe stato per i centristi e per
An impossibile.

Ma il ricatto della crisi è stato anche l’arma adoperata da Berlusconi per imporre il suo dominio
assoluto nel centrodestra, un dominio prima saldissimo, poi, dopo le ultime amministrative, sempre
più traballante. La minaccia di un ricorso al voto anticipato e di una campagna elettorale tutta
improntata all’appello plebiscitario del leader contro i suoi stessi riottosi alleati è stata uno
dei pilastri del potere imperiale del cavaliere sui leader subordinati. La retromarcia di ieri
rivela che quell’arma di ricatto, già spuntata dopo la batosta alle amministrative, è ormai
inesistente. Si è anzi capovolta nel contrario: oggi nessuno teme la crisi e il voto più del capo di Forza
Italia. Ed è difficile credere che nei calcoli di Fini (ma anche di Casini, Follini e Buttiglione)
non fosse previsto un simile esito, il colpo durissimo inflitto al primato del cavaliere.

Il capo della destra italiana potrebbe comunque consolarsi se la resa mettesse almeno fine al
braccio di ferro che dilania da mesi la sua coalizione. Non è così. L’armistizio firmato ieri è di
quelli che pongono le basi per nuovi e più acerrimi scontri su tutti i fronti. E alla fine non è
difficile prevedere che un simile equilibrio del terrore, tutto basato sulla minaccia di una crisi che
tutti agitano e tutti temono, finirà per sfuggire di mano e portare davvero alle urne ben prima
che nel 2006.