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Br, violenza, potere. Ma la storia si ripete?

Publie le domenica 2 novembre 2003 par Open-Publishing

L’offensiva mediatica sull’inesistente rapporto tra nuovi brigatisti e movimento

Br, violenza, potere. Ma la storia si ripete?

In questo arroventato dibattito sul rapporto tra movimento e violenza, tra radicalismo rivoluzionario e lotta armata, si continua a ragionare in una specie di tempo a-storico, a saccheggiare categorie e schemi indebitamente assunti come eterni e completamente decontestualizzati: come se le questioni fossero, all’incirca, sempre le stesse. Il povero Althusser avrebbe parlato di «astrazioni indeterminate», perciò cattive e fuorvianti. Come se si rieditassero, ogni volta, i conflitti che opposero Marx a Bakunin, i socialdemocratici tedeschi ai blanquisti, i bolscevichi ai populisti russi, i rivoluzionari ai riformisti fabiani, i comunisti di Togliatti agli ultimi insurrezionalisti. La storia, invece, ci insegna che ogni volta i problemi si sono presentati con una fortissima, prevalente specificità. Alla fin fine, quel che rischia di sfuggire, è proprio il presente. E quel che tende a perdersi è proprio la capacità di vedere le discontinuità là dove ci sono, o di mettere a fuoco le cattive continuità, nella loro sede propria.

Un primo esemplare punto di chiarezza, per fortuna, viene dall’intervista di Rossana Rossanda (che riproduciamo integralmente qui sotto). Proprio colei che ha coniato la fortunata formula dell’album di famiglia (e ne ha subìto gli usi e gli abusi più disparati), spiega che oggi non ha senso parlare di continuità tra vecchie e nuove Br, così come tra movimento no global e terrorismo. In verità, non è mai stato vero che i gruppi armati che insanguinarono l’Italia negli anni ’70 e ’80 fossero una propaggine organica della sinistra, o una costola del Pci. Nella cultura politica delle Br, per limitarci al "partito armato" più significativo, il cattolicesimo ebbe per esempio un ruolo assai significativo. Così come lo ebbe l’idea (di radice anarchica) del "gesto esemplare", a partire dal quale il popolo si sarebbe sollevato contro il potere. Ecco, era proprio quell’idea ossessiva del potere (da colpire in un suo esponente-simbolo, da destabilizzare, da rivendicare, da conquistare) che caratterizzò le prime Brigate Rosse: le quali furono determinate nella loro tragica dinamica, quasi da un’opzione di pura Autonomia del Politico, sia pure sulla base di un’analisi non corretta, come nota ancora Rossanda, dei rapporti Dc-Pci. Nulla a che fare, insomma, con il presente. I così detti nuovi brigatisti (ai quali i media dedicano pagine, dossier e numeri speciali, alimentando l’idea che si tratti di un esercito in formazione), appaiono lontanissimi dai "vecchi" così come, soprattutto, radicalmente estranei ai nuovi movimenti. I quali sono cresciuti - dice Fausto Bertinotti a Panorama - in un clima che, per la prima volta nella storia, coniuga "naturalmente" nonviolenza e radicalità. Qui c’è una soluzione di continuità con il passato, con la cultura dominante nel movimento operaio, perfino con il ’68, che non si può non vedere. Che ha a che fare un giovane no global, che si è formato sui libri di Naomi Klein, sul mito del piccolo Iqbal, sul rifiuto del consumismo, sulla diffidenza profonda per i partiti e le istituzioni, con la fredda disperazione esistenziale di Nadia Lioce? Ma, dice Luca Casarini sulla Repubblica, «siamo tutti condannati alla violenza da una condizione sociale e politica di violenza». Il leader dei disobbedienti difende il movimento, com’è giusto, dalle accuse di contiguità con il partito armato e con pratiche violente, non solo rovesciando sul sistema tutte le responsabilità, ma fieramente rivendicando la propria irriducibile alterità, rispetto alla politica, alle istituzioni, alla sinistra, Rifondazione comunista compresa («... lei sta parlando» dice all’intervistatore «con una persona che non è seduta né in una sede di partito.. né nella hall di un Holiday Inn. Ma in una casa occupata di Marghera...»). Una replica comprensibile e, al tempo stesso, un po’ teatrale: il bisogno (più che legittimo) di riaffermare le proprie ragioni strategiche, e la voglia di essere e apparire "diverso" dal ceto politico (rappresentato qualunquisticamente come omogeneo), spingono Casarini a una rappresentazione di se stesso francamente non credibile. Soprattutto per chi ha uno dei poteri reali oggi esistenti, quello dell’accesso mediatico.... In verità, il leit-motiv che ritorna, sempre, è proprio questa faccenda del potere. Domani - è sicuro - si accuserà Casarini di fare apologia della violenza, o di non prendere da essa le distanze con la necessaria chiarezza.

Domani, si continuerà a ripetere che spaccare una vetrina o buttare una bomba, su per giù è la stessa cosa. Ma le cose son davvero così semplici?

Così dice il Riformista: smettetela una buona volta di essere comunisti e anticapitalisti, e vedrete che tutto si risolve. Così scrive (Giusppe D’Avanzo) la Repubblica: «Il nodo della violenza politica come strumento legittimo di lotta, l’idea della politica come forza, non è stata ancora né sciolta né rimossa negli ambiti più radicali della sinistra». Entrambi chiedono, con formule diverse, abiura e pentimento, entrambi caricano il tema della violenza sulla sola sinistra ed, anzi, sulle spalle della sola sinistra radicale, entrambi, soprattutto, rappresentano la non violenza come rinuncia, moderatismo, rientro nell’ordine esistente e garantito delle cose.

Entrambi sembrano trascurare, tuttavia, che il problema va ben al di là delle loro stesse enunciazioni: non riguarda soltanto la sinistra, ma la sfera della politica, in quanto tale. In uno dei saggi portanti di Angelus Novus, Walter Benjamin analizza una singolare coincidenza linguistica: in tedesco Gewalt significa al tempo stesso potere e violenza, tanto da rendere la nozione inestricabilmente complessa. E Carl Schimitt non ebbe a teorizzare che la politica è, sostanzialmente, la dimensione che distingue «l’Amico» dal «Nemico»? Ecco un problema di dimensioni epocali. Noi, sinistra, comunisti, rivoluzionari, non l’abbiamo certo risolto: non sappiamo ancora se sarà possibile trasformare il mondo, liberarlo dalla regressione capitalista, senza cadere nelle aporie del Gewalt. Ma forse è proprio il movimento che, con tutta l’incertezza e la confusione del caso, comincia a provarci.

Rina Gagliardi

rina. gagliardi@liberazione. it

http://www.liberazione.it/giornale/031101/LB12D6AC.asp