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Caro Bertinotti: cambiare il mondo o la cravatta di Lenin?
Publie le venerdì 28 novembre 2003 par Open-PublishingAdriano Sofri srive al segretario del Prc
Caro Bertinotti: cambiare il mondo o la cravatta di Lenin?
Caro Fausto Bertinotti,
non ti sembri indiscreta la mia proposta di discutere alla buona che cosa significhi al giorno d?oggi il nome: comunismo. Succede che le parole siano costrette a trascinare una magra esistenza postuma, nell?universale abitudine a credere di sapere che cosa significhino, e a non parlarne più. Vera o no, era un bel caso di umor nero la notizia dell?altro giorno sulla decisione del Cremlino di cambiare la cravatta alla mummia di Lenin. A suo tempo io feci un vasto e sentito uso della parola: comunismo. Tu lo fai ancora, benchè l?idea che il comunismo vada rifondato alluda, accanto a una inclinazione conservatrice, alla constatazione di un affondamento. Oggi la sinistra subisce le sue divisioni, invece di metterle a frutto o tenerle a bada. A volte se ne rallegra, perchè il settarismo ha radici profonde, e perchè la rendita di posizione, grande o piccola, conviene a chi vivacchi contento del suo gruzzolo: magari dicendo di voler cambiare il mondo dalle fondamenta, e tenendo aperto il suo botteghino. Ci vuol altro per fare i conti coi mali del mondo.
Altro anche dalla tradizionale devozione ?verbale almeno- all?unità eccetera. Ci vuole un?alleanza enorme, poco meno che della specie. I newglobal alludono a volte a questa confederazione universale; e d?altra parte spesso ospitano aggressivi ritorni di faziosità, di settarismo, di narcisismo. Ora fra te e me c?è una influente differenza, perchè io faccio i conti solo con me stesso mentre tu rendi conto a una comunità militante di cui sei responsabile. Ma, dentro questi limiti, possiamo forse discutere costruttivamente. Lo spunto mi è venuto da una tua intervista a Franco Cangini della Nazione, e piuttosto dal titolo ?che forse sollecita dolcemente, come succede ai titoli, la tua intenzione: ?Bertinotti: ?Lo ammetto, il comunismo ha fallito?.? Non intendo legarti a un?intervista, tanto più che non ho un fine polemico. Provo a dire molto elementarmente che cosa penso. C?è un comunismo come aspirazione all?uguaglianza fra gli esseri umani, e all?armonia con la natura ?più esattamente, al ripristino di una uguaglianza originaria dalla quale la storia non avrebbe fatto che allontanarci. Questa utopica accezione di comunismo è destinata a non realizzarsi mai e a risorgere sempre, con la potenza di un sogno. Di questo comunismo si può parlare, come già si fece dell?anarchismo, come di una infanzia del movimento che mira a rendere il mondo più giusto.
Con l?avvertenza che in passato la maturità di quella infanzia, generosa e ingenua, era additata in un socialismo (o comunismo) come scienza, sul modello delle scienze naturali, pretesa foriera di errori madornali nell?interpretazione del mondo, e di disastri micidiali nella sua trasformazione.
Alla prova del potere, conquistato in Russia e tentato nel resto dell?Europa alla fine della Prima Guerra, il comunismo si caratterizzò come una tecnica della presa del potere (anche quella ?scientifica?: le fasi della crisi sociale, la trasformazione della guerra fra gli Stati in guerra civile, il dualismo di potere, lo sciopero generale e l?insurrezione ecc.), e come una concezione della transizione di sistema che sacrificava la libertà (dilazionandola) all?uguaglianza. Non credo che si possa ancora dare gran credito all?idea che l?abbandono dell?espansione mondiale della rivoluzione e la ritirata verso il socialismo in un paese solo spieghino la supposta degenerazione del comunismo, come tu sembri ripetere. Comunque, il comunismo al potere, e la sua espansione per via solo raramente rivoluzionaria (soprattutto in Cina) e piuttosto per via statalista e militarista, come nella costellazione di satelliti europeo-centrale e orientale, si è definito, per antitesi al capitalismo, accantonando la questione della libertà civile e personale, e mettendo al centro la conduzione collettivistica. Il comunismo era ormai la proprietà statale dei mezzi di produzione, il primato (morale, per giunta) dell?industria pesante e l?economia pianificata.
Già la formula leniniana ?di emergenza, certo, nessuno ha ceduto allo spirito dell?emergenza quanto i comunisti al potere- secondo cui il comunismo era il Soviet più l?elettrificazione, mostrava la corda. Che in questa versione non avesse più niente del sogno originario di una società di liberi e uguali, benchè potesse ancora travolgere i cuori di poveri e sfruttati grazie alla potenza di simboli e propaganda, è evidente. Restavano Stalingrado, e Stalin. Anche che il comunismo non avesse più a che fare con la sopravvivenza della denominazione nel Pci, al costo della famosa doppiezza e della protratta dipendenza dall?Urss, è giudizio sul quale ci metteremo facilmente d?accordo, credo. Il nome restava, a buon diritto, come il crocifisso nell?aula di Ofena, in un paese scristianizzato. Quando noi, estremisti della fine degli anni ?60 e dei ?70, riparlammo di comunismo, lo facemmo in due modi, ambedue di fiato corto. In un caso, riesumando la tradizione minoritaria ed eretica (eretica almeno perchè sconfitta e perseguitata a morte) del movimento operaio, e immaginando una forma di democrazia consiliare un po? libresca, un po? moralista, assai anacronistica. In un altro caso, si scelse il realismo antiutopico della citazione marxiana secondo cui il comunismo ?è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente?.
Suona bene, ma, mutato in slogan, è una metafisica provvidenziale, o, piuttosto, una tautologia. Il movimento reale è il movimento reale come una rosa è una rosa, comunque sia, e non abolisce lo stato delle cose, lo modifica, e resta da vedere come. La predilezione per quello slogan mostrava l?incapacità di definire il comunismo, se non attraverso se stesso. La formula sul ?movimento reale che abolisce lo stato di cose presente? è una dichiarazione di rinuncia. Lo storicismo più banale dichiarava razionale la realtà, lo slogan sul movimento reale dichiara razionale la sua abolizione... Dopo l?inaridimento della nuova sinistra, e poi il crollo dell?impero sovietico, il comunismo è rimasto, stalinismi e marxismi-leninismi a parte, come una bandiera di fedeltà morale o sentimentale, nella testata del Manifesto, o nel titolo di partiti come il tuo, o nell?orgoglio di persone che non accettano di cedere a un anticomunismo maramaldo o ignorante. Stimabile sentimento, che però accantonava sia l?eventualità che la fede nel comunismo si traducesse in un?esistenza personale comunista, sia la corrispondenza con una peculiare idea di società. Tu oggi dici che ?in realtà, il comunismo non è stato mai messo in pratica?: è quello che dicevano quelli come me quando ci riprovarono, sul serio, trentacinque anni fa, più o meno.
Ancora un piccolo sforzo ?psicologico, essenzialmente- e dirai che ?in realtà il comunismo non può essere messo in pratica?: il che non gli toglie affatto dignità, anzi.
Se oggi il comunismo è un?aspirazione o una nostalgia o una bandiera di coerenza, ma non un?idea di società nè un processo che vi conduca, la questione vera si sposta sulla struttura logica (e psicologica e morale) di cui l?opposizione fra comunismo e capitalismo era espressione. Il comunismo rivoluzionario era infatti il rovesciamento del capitalismo. A sua volta, per così dire, il capitalismo (e la sua forma politica ideale, la democrazia liberale) ha bisogno del comunismo per esistere come un sistema organico e preferibile. L? esaurimento del comunismo può mettere in mostra la degradazione del capitalismo da ?sistema? all?enorme guazzabuglio cui è approdata una storia del genere umano sospinta dal caso, dalla violenza, dall?inerzia e dall?imprevedibilità. Enorme guazzabuglio che la potenza degli interessi parziali e la miopia delle scelte e abitudini culturali hanno condotto alle soglie della rovina universale. Si è riluttanti ad ammettere un paesaggio così disordinato e ignobile, e a rinunciare a un?aspirazione all?antagonismo e all?alterità. A differenza dal comunismo, il capitalismo non è fallito se non nel senso di essersi annullato, diventando tutto.
Così, non importa che l?altro mondo possibile, quando non significhi un mondo migliore, o meno peggiore, ma un mondo rifatto dalle fondamenta, quando cioè conservi una tensione alla palingenesi, prenda o no il nome di comunismo: quello che conta è la durata o la reviviscenza di una metafisica antagonista e dicotomica. Nel ?movimento dei movimenti? coabitano ambedue le spinte. Tu, che vi hai visto ?con sincerità e generosità, del resto: non ho alcuna ragione per dubitarne- la fausta occasione per rigenerare un pensiero e una condotta politica ereditata e asfittica, una trasfusione di sangue, una specie, lasciami dire così, di colpo di fortuna in extremis ?o oltre- per uscire dal deserto, ti impegni tuttavia a fomentarne la tensione antagonista. Ma antagonismo a che cosa? Al capitalismo? E dunque continuando a riconoscervi una razionalità (sia pure iniqua) di sistema? E in nome di quale sistema alternativo? Ricavo da quello che dici che la categoria che definisce il mondo cui opporsi dalle fondamenta sia diventato il liberismo.
Ma occorre una gran forzatura a mettere sullo stesso piano il liberismo, e a maggior ragione il liberalismo (come fai nell?intervista citata), e il comunismo: nella teoria, e soprattutto nella pratica, dal momento che per regalare al capitalismo contemporaneo una fedeltà coerente e rigorosa al liberismo bisogna essere ben prodighi. E? un?illusione deformante che il liberismo costituisca il nemico sistematico da battere, secondo un?aggiornata dicotomia liberismo-antiliberismo (protezionismo è parola che non si userebbe volentieri). Ma il liberismo è spesso un?ideologia, corvéable à merci. Già oggi si vende male. ?La differenza ?dici- è che io ammetto la sconfitta del comunismo storico, mentre loro negano quella del liberalismo?. Ma con il ?comunismo storico? è l?idea di rivoluzione, dell?altro mondo, del mondo nuovo, che è fallita: mentre l?eventualità di un grado maggiore di libertà e di giustizia ha a che fare con la modificazione del guazzabuglio vigente. Vuol dire di volta in volta correre ai ripari, soccorrere, correggere, riformare, anche secondo un disegno di conversione radicale di modi di pensiero e di esistenza materiale.
Anzi, senza una simile conversione è spacciato il pianeta, non qualche suo continente, nè qualche sua classe. Ma a condizione di rinunciare alla palingenesi rivoluzionaria, perchè almeno questo è provato, che l?inerzia delle cose accumulate lungo i millenni tiene ostaggi il pianeta e la società in un equilibrio assurdo ma così delicato che a maneggiarlo bruscamente si rischia il disastro. Il giudizio discriminante, oggi, riguarda l?intollerabile iniquità del mondo, e la suicida corsa alla sua distruzione. Bisogna separare la diagnosi e la prognosi radicale dalla terapia duttile, la malattia mortale dalla medicina dolce ?una contraddizione in termini, in apparenza almeno. Ma il vincolo fra diagnosi radicale e metodi rivoluzionari destina alla rovina. Fa riuscire l?operazione ?ammesso che riesca- e crepare il paziente.
Lasciami proporre un?ultima osservazione sulla ragione profonda del tuo, e non solo tuo, attaccamento alla logica dell?alterità: è un desiderio di assolutezza.
Mi rifaccio a una appassionata lettera personale che avesti la gentilezza di scrivermi all?indomani della guerra in Iraq. Mi spiegavi come il passaggio dall?imperialismo all?impero avesse comportato il passaggio dalla solidarietà con le lotte antimperialiste alle pratiche della nonviolenza e della disobbedienza. La coppia guerra-terrorismo, dicevi, ?non lascia più alla violenza alcuna possibilità di essere liberatrice?. E? vero, ma era già vero. Ci siamo arrivati, per strade diverse, in date diverse, quando ci siamo arrivati. Soprattutto, la Rivelazione deve lasciarci ammettere che non ci sono così limpidamente ?loro?, quelli della coppia guerra-terrorismo, e ?noi?, quelli della nonviolenza e della pace. L?antagonismo fra guerra e pace offre una solida frontiera: ma poi bisogna metter fine alle guerre, soccorrere i pericolanti, far rispettare il diritto la libertà e la dignità, avere una polizia, un codice e un tribunale. E non barattare ancora una volta, a tempi scaduti, l?amore per la libertà con il ripudio dell?ingiustizia: che fu il destino dei comunismi storici, con l?effetto di decapitare con un colpo solo libertà e giustizia.
Adriano Sofri