Home > Codice di guerra per i militari in Italia
Sempre più «emergenza» per la cosiddetta missione di pace in Iraq.
Il direttore del "Giornale dei carabinieri": «Ci tolgono i diritti costituzionali»
Neppure i carabinieri, abituati ad obbedir tacendo, fedeli nei secoli e quanto altro, riescono a superare emotivamente le assurdità del pericoloso pasticcio in cui si è cacciata l’Italia con la "missione di pace" in Iraq. Oggi giorno c’è una novità peggiore di quella del giorno prima: si applicano la disciplina e i codici di guerra, in un modo o nell’altro ti obbligano a partire per l’Iraq, dove oggi i soldati sono trincerati nei bunker e si fa una sola cosa la guerra. Il ministro Martino ieri ha parlato sul serio e ha detto che «il rischio è molto alto».
I carabinieri si fanno domande, chiedono chiarimenti alle rappresentanze militari, telefonano alla redazione del "Giornale dei carabinieri", raccontano ciò che sta succedendo nelle caserme, gli ordini di servizio che dicono: da oggi si applica il codice penale militare di guerra. Oppure chiedono come mai in quella tragica mattina dell’attentato a Nassiriya non era presente nessun ufficiale tra i militari impegnati nel dispositivo di sicurezza della base.
E’ vero che si sta applicando il codice penale militare di guerra anche in Italia? Il maresciallo capo Ernesto Pallotta, fondatore del "Giornale dei carabinieri" e rappresentante dei Cc nel Cobar Lazio, conferma e dà voce alla protesta che viene dai reparti. Il codice di guerra, applicato fin dal maggio scorso ai reparti operanti in Iraq, ora incombe anche sui militari dislocati in Italia, ma impegnati in attività connesse con l’organizzazione e il funzionamento della cosiddetta "missione di pace". Lo stato maggiore della difesa, qualche settimana fa, ha chiesto ai comandi di tutte le forze armate di individuare i reparti ai quali ne va estesa l’applicazione. Alcuni comandanti, nel dubbio di lasciar fuori qualche ufficio, hanno applicato il provvedimento con zelo a tutti i militari dei loro reparti».
Questo significa, ad esempio, che sono sottoposti al codice di guerra il carabiniere che prende nota di un volo militare diretto in Irak o l’aviere che cura la manutenzione degli elicotteri destinati alla base di Nassiriya?
Proprio così. Si tratta certamente di centinaia di militari, che vivono e lavorano in Italia, in un Paese che non è in guerra con nessuno, secondo quanto è stato detto al parlamento, ma ci vuole poco a capire che i fatti vanno in una direzione diametralmente opposta.
Quanto incide negativamente sulle condizioni di vita di un militare l’applicazione del codice di guerra?
E’ molto pesante, a cominciare dalla restrizioni disciplinari. Ogni infrazione è punita più severamente. I militari chiedono più democrazia, libertà d’iscriversi alle associazioni, libertà di opinione. Invece qui si vieta l’esercizio dei diritti costituzionali, si rischiano processi, condanne. Il clima sta diventando sempre più cupo. Già otto associazioni di militari hanno subito la censura del ministero della Difesa, il che significa che è proibito farne parte. E’ da ciechi non accorgersi che per le istituzioni militari siamo in stato di emergenza, quando lo stesso consigliere militare del presidente del Consiglio, il generale Tricarico, chiede restrizioni dei diritti costituzionali per tutti i cittadini.
E’ vero che in qualche battaglione dei carabinieri, si parla specialmente di quello di Gorizia, alcuni militari che si erano rifiutati di andare in Iraq, hanno dovuto dire «obbedisco» e sono partiti.
La mancanza di chiarezza sulla natura della missione ha fatto sentire il suo peso dopo la strage di Nassiriya. C’è oscurità su cosa si va a fare in Iraq e questo crea dubbi e angosce. Qualcuno che aveva fatto la domanda per andare nel battaglione Gorizia, impegnato in molte missioni di pace, si è convinto che la situazione è cambiata: quella in Iraq non è una missione di pace. Sono arrivate al giornale delle voci, secondo le quali le regole militari non hanno permesso i ripensamenti.
La stampa americana ha confermato che i servizi segreti avevano preavvertito il comando militare italiano a Nassiriya dell’azione terroristica progettata contro la base dei carabinieri. L’allarme non è servito neppure a far rafforzare le misure di sicurezza. Non è strano, come dice qualcuno, che non fosse presente nessun ufficiale nel momento in cui è avvenuto l’attacco?
Non è ancora chiara la natura delle informazioni, né si sa se dal livello militare che ne ha fatto la valutazione sono state portate a conoscenza di ufficiali e sottufficiali impegnati nei dispositivi di sicurezza. Dopo la strage, dall’interno e anche dall’esterno dell’Arma, è stata posta con frequenza al nostro giornale la domanda sul perché non era presente nemmeno un ufficiale nel servizio di sicurezza quando la base ha subito l’attacco. E’ una domanda legittima, sempre che l’assenza di ufficiali, che per ora è una voce, abbia conferma. Nelle scuole di formazione dei carabinieri il servizio di vigilanza è sempre diretto da un ufficiale di picchetto. Sarebbe strano che a Nassiryia non si fosse disposta la presenza costante nel dispositivo di sicurezza di un ufficiale ben informato. Il nostro giornale sta facendo un’indagine anche su questo aspetto, perché si deve far chiarezza su tutti i fatti. Stiamo raccogliendo elementi e testimonianze.
Annibale Paloscia