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Sulle proposte di Bertinotti e l’intervista di Ingrao, una lettera del direttore di Carta Pierluigi Sullo
Cari Compagni,
siccome leggo tutti i giorni Liberazione (insieme al manifesto e al messicano La Jornada è il solo quotidiano che la mattina guardo sicuramente), sto seguendo con grande interesse la discussione, le lettere e le interviste, come quella di Rina Gagliardi a Pietro Ingrao, seguite alla ri-pubblicazione di un certo articolo della Repubblica. Dato che, come sai, quel tema - la nonviolenza - Fausto Bertinotti l’ha trattato in principio rispondendo su Carta, il mio giornale, a una lettera aperta di Marco Revelli, ho deciso di auto-invitarmi in questo dibattito. Anche se non ho la tessera di Rifondazione, sono certo che mi permetterai questa piccola violazione del galateo: d’altra parte, la lettera di Revelli e la risposta di Bertinotti furono simultaneamente pubblicate anche da Liberazione, per essere poi riprese da Paolo Mieli sul Corriere della Sera, e infine - ma solo infine - dalla Repubblica. Quindi siamo sulla stessa barca, per così dire.
Ricostruire il percorso di questa discussione sulla nonviolenza non serve a rivendicare un primato (sebbene anche: dibattere tra noi è sempre meglio che lasciare ad altri, che hanno altri interessi, l’opportunità di interpretarci), ma a dire che, leggendo leggendo, mi sono fatto questa idea: che il punto su cui i tuoi lettori e gli iscritti a Rifondazione stanno discutendo non è precisamente quel che appare. Molte lettere sembrano porre così il problema: è giusto, in questo momento, rinunciare a simboli, parole, schemi interpretativi e modi di azione consolidati, o tradizionali, della sinistra comunista? Posta questa domanda, si capisce angosciosa per molte persone che attorno a quella parola, "comunista", hanno costruito una vita intera, ci si divide, spesso duramente, tra chi pensa che sì, è opportuno, e chi no, è sbagliato, è un tradimento, un cedimento, e così via.
A me pare invece, lo dico con qualche timidezza, che la domanda di fondo, quella che secondo la mia impressione muove Bertinotti, sia la stessa che, in fondo, sta nella ragione sociale del partito, nel suo stesso nome: rifondazione. La questione è: in che modo, adesso, archiviato il secolo, nel mondo della guerra permanente ("la grande novità del terzo millennio", dice Ingrao nell’intervista a Rina), si può essere altrettanto radicali (intransigenti, alternativi, attivi nel cambiare il mondo…) quanto lo furono i comunisti, attorno, diciamo, alla fine della prima guerra mondiale e l’inizio degli anni venti del Novecento, quando ruppero a loro volta con una tradizione, quella della Seconda Internazionale?
Vedi, sto scrivendo questa lettera come se fossi in una piccola vacanza, perché in questi giorni sono sommerso dalla traduzione del libro sui dieci anni di insurrezione zapatista, El fuego y la palabra, che Carta pubblicherà tra qualche settimana. Il libro contiene, oltre a una lunghissima auto-intervista del subcomandante Marcos, decine di testimonianze di indigeni, molti dei quali insurgentes, come dicono loro, ossia soldati dell’Esercito zapatista. E quel che mi colpisce, leggendole, è quanto quegli uomini e quelle donne - che senza ombra di dubbio si stanno ribellando, sono antagonisti del neoliberismo - si interroghino su come hanno iniziato, con le armi in pugno, e su dove sono arrivati, a considerare come loro principale proposta ("civile e pacifica", dice Marcos) quella dei Caracoles, i municipi autonomi, insomma l’auto-organizzazione democratica dei popoli zapatisti. E il prima, le armi, e il dopo, i municipi, convivono spesso contraddittoriamente in una stessa persona, un militare, si badi bene, per quanto rivoluzionario, che magari dice "le armi sono ancora qui", e poi aggiunge "però non dobbiamo diventare militaristi", e conclude "la cosa più importante è l’autonomia delle comunità".
Ora, mi pare, Bertinotti dice: una scelta nonviolenta è la condizione necessaria per una radicalità reale, che cioè non si limiti all’atto di proclamare la propria opposizione. E questo proprio perché è il linguaggio della violenza quello con cui il dominio parla: la guerra permanente, appunto. Revelli fa un passo oltre, per me convincente: in fondo, dice, il linguaggio della violenza, per quanto rivoluzionaria, entra nello stesso ordine del discorso imperiale, quindi è per sua natura il mezzo di una trattativa. Mentre la nonviolenza scarta di lato, o altrove, è una lingua talmente differente da quella dominante da non poter che essere intransigente.
Qui è il nocciolo della questione. Cui si arriva, anche, mettendo in conto non solo la diversità dell’epoca in cui si è costruito quel corpus di pensiero e azione che è stato il comunismo del Novecento, ma i suoi - a fare un bilancio - evidenti e tragici fallimenti. Su cui c’è poco da discutere: l’idea della conquista violenta del potere, per poi da lì trasfomare la società, è, come dice molto autorevolmente Ingrao, uno schema del passato. Il movimento "altermondialista", tutto intero e in tutte le sue diversità, sta cercando di trasformare la società in modo che il potere sia il più disperso possibile.
Infine, i nomi e i simboli. Quando mi chiedono se sono "comunista", rispondo citando Lenin, il quale decise che il Partito socialdemocratico russo (bolscevico) dovesse assumere il nome di comunista discutendone con i suoi compagni sul treno blindato, fornito dal Kaiser tedesco, che dalla Svizzera lo riportava in Russia, nel 1917. Gli pareva, probabilmente, che l’aspirazione alla democrazia sociale (da cui "socialdemocratico") aveva bisogno di un altro "logo", per potersi rinnovare, segnando una frattura con il movimento operaio fin lì organizzato. Io sì, sono comunista, per forza, dopo più di trent’anni di giornalismo di questo tipo. Ma se mi chiamano "altermondialista", di "quelli di Genova", "filozapatista", o anche "pacifista", o quel che serve in quel momento per significare che esiste un’altra possibilità, non sto a reclamare. C’è posto per tutti, nel mondo che, come dice quel tale mascherato, contiene molti mondi.
Grazie per l’ospitalità.
Pierluigi Sullo
Direttore di Carta settimanale