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Con le televisioni si vincono le elezioni ma non si governa

Publie le venerdì 7 novembre 2003 par Open-Publishing

REPUBBLICA on-line 6-11

Lo spettro del ’94 per il Cavaliere

Con le televisioni si vincono le elezioni ma non si governa il Paese

di CURZIO MALTESE

L’ULTIMA tempesta sul governo ha il merito di rendere ormai evidente, quasi plastica, la
schizofrenia in cui vive l’Italia di Berlusconi. Sulla superficie dello schermo scorre una specie di
telenovela di sorrisi, con protagonista il premier che ha trasformato Palazzo Chigi in un set
pubblicitario, ogni incontro internazionale in spot personale, la politica in un Mulino Bianco. Nella realtà
dei palazzi romani avanza la replica del ’94, la progressiva frana di una maggioranza che non
riesce a tenere insieme la Lega e gli altri alleati, in preda ormai a un furioso regolamento di conti.
Il pendolo fra l’una e l’altra immagine oscilla sempre più rapidamente e ieri ha rischiato di
esplodere.

Silvio Berlusconi ieri pomeriggio non ha fatto in tempo ad annunciare, con la nota lungimiranza:
"La maggioranza è compatta". Un minuto dopo la Camera ha bocciato la riforma della giustizia
minorile proposta dal ministro Castelli, con ben trentasei franchi tiratori della maggioranza che hanno
votato con l’opposizione. In un paese normale equivale alla sfiducia votata al ministro. Perfino
Castelli per un istante è parso capirlo e infatti ha minacciato le dimissioni. Poi è tornato
Castelli e ha rinviato la responsabilità all’assemblea leghista di domenica, dove probabilmente si
deciderà di fare la faccia feroce e basta. Ma la fiera resistenza sulla poltrona rischia di precipitare
in un calvario politico.

La riforma del tribunale dei minori era la prima e unica proposta autonoma avanzata dalla Lega e
dal suo ministro della Giustizia, quasi un premio dopo due anni di lavoro sporco per salvare il
premier dai processi, con le varie leggi ad personam sul falso in bilancio, la Cirami, il Lodo e le
ispezioni a orologeria.

Non potendo ribellarsi alla voce del padrone, i franchi tiratori di Alleanza nazionale e Ucd hanno
aspettato che Castelli si presentasse da solo. È evidente che la strategia di Gianfranco Fini e
Marco Follini è di sbattere la Lega fuori dalla maggioranza. Fuori dagli interessi sacri del
premier, sui quali vige una specie di vincolo contrattuale alla difesa d’ufficio, ogni tema è buono per
dare un’altra spallata: la riforma della giustizia come quella delle pensioni, il servizio militare
o il mandato di cattura europeo o il voto per gli immigrati.

Qui si è inserito il secondo spot di giornata. Nelle pause dell’incontro con l’amico Putin, il
profeta di Arcore è uscito per annunciare: "Non vi sarà alcun rimpasto, Fini non è interessato agli
Esteri". Pronta la risposta del suo vice che gli parla sempre più spesso attraverso le agenzie di
stampa, forse per avere testimoni: "È vero, non sono interessato agli Esteri ma a ridefinire il
programma e la squadra di governo per la seconda parte della legislatura". Tradotto dal nuovo
politichese, significa che Fini vuole scaricare la Lega e porre fine alla politica economica di Tremonti.
Per Berlusconi sarebbe stato assai meglio se avesse chiesto soltanto il ministero degli Esteri.

Gli illusionismi del premier durano ormai lo spazio di un minuto, un flash d’agenzia. Non riescono
neppure a reggere fino all’ora dei telegiornali serali. Sarà per questo che le berlusconate si
moltiplicano ogni giorno, arrivano a raffica, tre o quattro alla volta. Vere "armi di distrazione di
massa", come dice George Bush quando confonde le formule scritte sul "gobbo" .

Nel tentativo di offrire titoloni cubitali per coprire qua un dato economico e là una crisi
politica, Berlusconi soltanto ieri ha regalato un repertorio multi mediale completo di gag, slogan,
barzellette, finte notizie e bizzarrie. A partire dal solito trucco di presentare come un successo
"storico" l’inutile incontro con Putin, dove il presidente russo ha risposto niet all’invio di truppe
in Iraq ma in compenso ha incassato la solidarietà del governo italiano sullo scandalo del colosso
petrolifero Yukos. Berlusconi si è addirittura spinto a citare una misteriosa fonte secondo la
quale i russi sarebbero d’accordo con i magistrati inquirenti "quasi al cento per cento", percentuale
record anche rispetto all’epoca di Stalin.

È del resto comprensibile che il governo italiano si concentri sugli affari, i sondaggi e i
magistrati russi, considerata la situazione in patria. L’unica speranza di invertire la rotta di
collisione dentro la maggioranza e con l’elettorato risiede in una ripresa economica che non si vede
all’orizzonte. I segnali vanno anzi nella direzione opposta. Tanto che i telegiornali Rai e Mediaset
da settimane hanno di fatto abolito il notiziario economico. Negli intervalli fra una polemica su
Andreotti e una sull’Eurobarometro, non s’è trovato il modo di citare anche di sfuggita la
retrocessione dell’Italia dal 33° al 41° posto nelle classifiche internazionali di competitività, il
tracollo del made in Italy, i dubbi sui conti della Finanziaria avanzati in Italia e all’estero. Senza
nominare l’esclusione dell’alta velocità Lione-Torino dai progetti europei che significa perdere
l’ultimo treno della modernizzazione, altro che ponte sullo Stretto.

Sono le cifre di un fallimento. Si possono nascondere al pubblico con telegiornali fatti di
cartapesta come gli sfondi allestiti per le fiction diplomatiche del premier. Ma non si possono
nascondere a chi condivide le stanza dei bottoni. Fini e Follini chiedono da mesi di prendere atto del
fallimento, sostituire il timone dell’economia e invertire la rotta prima dell’inevitabile urto. Da
mesi Berlusconi, come risposta, impugna il microfono e lancia un altro spettacolino, in una
versione casereccia del Titanic.

In questo modo si rende ogni giorno più vicina l’ipotesi che sembrava più impensabile all’inizio
dell’avventura: la replica del ’94. Senza uno Scalfaro al Quirinale, senza ribaltoni, avvisi di
garanzia, fronti sindacali compatti, piazze oceaniche. Per le ragioni profonde che portarono nel ’94
a un collasso tutto interno alla maggioranza, a una destra che non è una destra ma tanti pezzi di
culture e politiche tenute insieme da un impresario per il tempo dello show elettorale. Si era già
visto allora che con le televisioni, con l’immagine, si potevano vincere le elezioni ma non
governare il Paese. Chissà se basteranno dieci anni, fra poco, per capire la lezione.