Home > Dibattito sulla non violenza
Care, cari,
inizio, precisando che il mio intervento e’ di natura
strettamente personale, sebbene io faccia parte del
Consiglio Nazionale di Attac, cosi’ come lo era quello
di Marco Bersani: Attac, infatti, deve ancora fare un
percorso di discussione, che credo fara’ nel corso
della prossima assemblea nazionale, il 13, 14 e 15
febbraio, per arrivare, in maniera orizzontale e
condivisa a una posizione e a una elaborazione il piu’
possibile collettiva. Spero, comunque, che questo mio
intervento possa essere utile per la discussione di
Attac e in generale del movimento.
Vorrei prendere le mosse dall’articolo di Cannavo’,
Bernocchi e Casarini (temo di non poter piu’
annoverare tra gli autori Marco Bersani, considerata
la sua per me incomprensibile e politicamente
immotivata tardiva "dissociazione": dico immotivata,
perche’ mi sembra che nella sua email Bersani abbia
ribadito quello che nei fatti rappresenta il nucleo
dell’articolo, vale a dire la questione del diritto
alla resistenza armata di un popolo invaso- nel caso
specifico l’Iraq- e l’impossibilità di fare della non
violenza una categoria metafisica).
Non mi dilungo troppo e vengo al punto.
1) non credo che l’articolo volesse porre la questione
dell’efficacia o inefficacia in termini assoluti della
non violenza o equiparare la non violenza a passività
(al contrario, molti degli strumenti che oggi il
movimento adopera, che creano consenso e ottengono
risultati, sono patrimonio dell’elaborazione sulle
pratiche non violente). Da questo punto di vista,
bisogna in primo luogo sgombrare il campo dalla
dicotomia violenza/non-violenza, che farebbe sembrare
che in questo dibattito ci siano fautori appassionati
della violenza (la scelta di Liberazione di pubblicare
la foto della kamikaze palestinese come "ornamento"
grafico dell’articolo rientra in questa forzatura del
dibattito e delle posizioni). L’uso della violenza,
credo, porta sempre, in ogni caso, un contenuto di
dolore, irrimediabilità degli atti, rischio di
instaurazione di rapporti di potere gerarchici e
oppressivi, con cui è sempre, in ogni caso,
costantemente necessario fare i conti. Direi dunque
che la domanda non è affatto "violenza o
non-violenza?", ma piuttosto: "è possibile fare della
non-violenza un valore assoluto, un principio
irrinunciabile, quali che siano le circostanze?".
2)Oggi, in Italia, l’intero movimento contro la
globalizzazione si muove all’interno di un patto,
quello genovese, che "è fondato su azioni non
violente, pacifiche e di disobbedienza civile".
Dunque, non credo che sia qui in discussione se il
movimento debba o meno far ricorso a pratiche violente
né a qualcuno credo che stia passando per la mente di
proporre forme di militarizzazione del movimento che
si sono sperimentate in altri periodi, a danno della
mobilitazione sociale. Tuttavia, quando si riflette di
violenza, e’ necessario sempre aver presente la
violenza che quotidianamente il capitale, il governo,
i capetti grandi e piccoli (in particolar modo sui
luoghi di lavoro) esercitano su ognuno di noi,
psicologicamente, emotivamente e anche fisicamente.
Per non ricadere in quello che rischia di diventare
uno sterile moralismo da pruderie piccolo-borghese.
3) E’ stato gia’ detto, e lo condivido: le pratiche di
lotta devono essere scelte e valutate in relazione
allo specifico contesto storico, politico e sociale;
non c’e’ una situazione uguale a un’altra ne’
categorie valide sempre e per tutto. Inoltre devono
essere pratiche condivise ed essere radicate in un
consenso di massa, non riproporre fenomeni di
avanguardismo che rischiano di favorire la
passivizzazione sociale. Se si guarda alla situazione
in Iraq, e’ innegabile che vi siano gruppi che fanno
del terrorismo la propria pratica di lotta; e a questa
pratica si accompagna spesso anche una proposta di
società reazionaria, teocratica e ademocratica che e’
quanto di piu’ opposto sia immaginabile rispetto
all’"altro mondo possibile".
Ma e’ altrettanto
innegabile che c’e’ un fenomeno di resistenza armata
all’invasione, che prende di mira obiettivi militari e
non civili, e che gode di un consenso collettivo e di
massa e, dunque, si intreccia con la mobilitazione
sociale e politica. La domanda che voglio fare non è
semplicemente se gli iraqeni abbiano o meno il diritto
a resistere, anche con le armi, all’invasione, lo do’
per scontato, essendo peraltro un diritto riconosciuto
persino dall’Onu. La domanda e’: il movimento contro
la globalizzazione capitalista e la guerra permanente,
come si deve porre e relazionare di fronte a chi oggi
in Iraq tenta di resistere all’occupazione, avanzando
ideali di democrazia ed emancipazione, e utilizzando
"anche" la lotta armata? Pensiamo che senza questa
opposizione all’occupazione, anche con l’uso della
forza, si potrà mai costituire un nuovo Iraq piu’
democratico, in cui regneranno equità e giustizia
sociale? Sono tutti terroristi?
4)Infine, è vero che la burocratizzazione verificatasi
nelle esperienze di socialismo reale ha impiegato
sistematicamente la violenza e il terrore per
consolidare il proprio dominio. Ma mi sembra piuttosto
naif sostenere che l’impiego della violenza (peraltro
certo non nelle forme di una fantomatica "presa del
palazzo di Inverno") nella rivoluzione russa o in
altre rivoluzioni sia la radice dei processi di
degenerazione burocratica che poi sono seguiti.
Casomai le ragioni sono da individuare in un complesso
di circostanze storiche, economiche e sociali.
Bisognerebbe a volte ricordarsi che la stessa
Costituzione italiana, a cui molti fanno spesso
riferimento, affonda le sue radici nella resistenza
armata e di popolo al nazifascismo.
Per tutte queste ragioni, penso che il dibattito, per
come e’ stato impostato rischi di essere fuorviante;
piuttosto che discutere oggi di Violenza e Non
violenza nel modo in cui se ne sta discutendo, sarebbe
forse piu’ utile riflettere su come si sta modificando
il movimento in Italia, sul significato delle lotte
sociali, dagli autoferrotranvieri, a Scanzano, alle
lotte per la casa che si stanno moltiplicando e su
quali sono le forme sociali e di lotta utili per
ricomporre e rendere cosi’ piu’ efficaci queste
mobilitazioni, intrecciandole nel movimento contro la globalizzazione.