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Dobbiamo disarmare la violenza con la nonviolenza
Publie le martedì 20 gennaio 2004 par Open-PublishingL’intervento di Bernocchi, Bersani, Cannavò e Casarini su Liberazione non
riesce a darmi speranza. Aldilà dei tanti ragionamenti mi trasmette il
messaggio di una condanna: come se noi tutti che lottiamo, disobbediamo,
resistiamo, fossimo condannati a non poter uscire dal paradigma della
violenza, di fronte ad un potere che si fa sempre più violento, e specie là
dove la guerra asimmetrica dei potenti schiaccia ogni libertà e resistenza.
Ma credo che sia proprio questa condanna che dobbiamo smentire, questo
paradigma che dobbiamo rompere nel nostro pensiero, nelle nostre pratiche,
nel sostegno che diamo ai movimenti di liberazione degli altri popoli.
Se vogliamo aprire le porte di un altro mondo possibile, dobbiamo saper
immaginare un modo diverso di lottare contro la ferocia e la violenza
dell’Impero. Definirsi nonviolenti non è una insufficienza, non è un minus,
ma al contrario è il primo passo di una utopìa concreta. E la questione
cruciale non è neanche stabilire se la resistenza armata in Iraq o in altri
contesti sia legittima oppure no, ferma restando una giusta distinzione tra
terrorismo e resistenza. Il problema cruciale è chi siamo noi, che cosa
vogliamo essere. Infatti, una volta stabilito che è legittimo difendersi
anche con le armi, non abbiamo però fatto i nuovi passi che possano farci
aprire la porta del futuro; non abbiamo prodotto alcuna innovazione per
essere diversi dalle pratiche dell’avversario che ci sovrasta. Oggi
l’Impero ha dichiarato guerra al resto del mondo, a cominciare dagli Stati
canaglia. Io credo che l’Impero sia invincibile sul piano militare, che il
movimento può batterlo solo sul piano politico distruggendo definitivamente
e a livello planetario la sua egemonia. Ma per far questo dobbiamo essere
consapevoli di un nuovo ruolo.
Non possiamo continuare a guardare al
passato, non ci basta giustificare i metodi di lotta del Novecento,
dobbiamo annunciare il futuro, essere ambasciatori di una nuova civiltà,
cominciare concretamente un nuovo processo di civilizzazione che dimostri
l’impossibilità di governare il mondo con le armi. Ma se noi stessi
continuiamo a giustificarne l’uso, continuando a credere nella loro
efficacia, vincerà sempre chi ha le armi più potenti. Noi dobbiamo invece
dimostrare che le armi non servono perché tutto il mondo si ribella al loro
uso e disarma i signori della guerra. Non so come faremo a fare questo e
non so come si potrà fare a liberare l’Afghanistan, la Palestina, l’Iraq e
tutti gli altri, affermando la strada della resistenza nonviolenta, civile,
di massa.
Non so quali altri mezzi troveremo per affermare che tra Uccidere e Morire
c’è una terza via: Vivere. Ma so che la strada della nonviolenza è
obbligata perché dobbiamo lasciare la violenza tutta nelle mani
dell’avversario, come depositario di quel mondo che vogliamo cambiare
radicalmente.
E le contraddizioni economiche e politiche del capitalismo globalizzato mi
fanno ben sperare che questo ordine del mondo non è eterno e che noi
contribuiremo a costruire l’alternativa.
La posizione così chiaramente espressa da Fausto Bertinotti non solo non è
minoritaria nel movimento di cui anch’io faccio parte, ma è maggioritaria
nella società civile che si muove e confligge insieme a noi e attorno a noi.
Il movimento delle lotte sociali e delle lotte per la pace e la giustizia
si fonda su pratiche nonviolente e di massa ed esprime creatività,
vitalità, fiducia nella partecipazione collettiva.
Sappiamo che il nostro compito in Occidente è quello di disarmare l’Impero,
opporre la pace alla guerra, la nonviolenza alla violenza. Tutte le grandi
idee rivoluzionarie del passato all’inizio sembravano astratte e
irrealizzabili. Oggi i nonviolenti vengono tacciati di astrattezza, ma la
storia ci darà ragione.