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E l’Ulivo punta su Fini

Publie le giovedì 27 novembre 2003 par Open-Publishing

ANDREA COLOMBO

Il tifo della Quercia e della Margherita per Gianfranco Fini è troppo
sfegatato per potersi spiegare semplicemente con la soddisfazione per il
passggio alla democrazia di un partito dal (recente) passato neofascista.
C’è davvero anche questo nel tripudio di Fassino e Rutelli, sia chiaro, e
tuttavia il palese tentativo di accreditare la leadrship del vicepremier in
sostituzione di quella del cavaliere richiede qualche spiegazione in più.
Col suo viaggio in Israele il capo di An corona un percorso che è già andato
molto oltre la «storica» svolta di Fiuggi, ed è appena all’inizio.
L’obiettivo non è più la trasformazione del partito erede di Salò in
formazione democratica, ma il suo spostamento dall’ala estrema a quella
centrale (e centrista) della Casa delle libertà. Non a caso, nel
centrodestra, gli applusi più fragorosi sono stati tributati al leader di An
dall’altra formazione centrista della coalizione berlusconiana, l’Udc, a
fronte del silenzio gelido della Lega e della stessa Forza Italia.

Ma se è facile capire perché Fini stia cercando di accreditare il suo
partito come vera forza ragionevole e moderata di una destra italiana
«normalizzata», meno semplice è comprendere perché i leader dei Ds e della
Margherita appaiano a loro volta tanto ansiosi di celebrare la vittoria del
vicepremier. Tanto più che i vistosi limiti del cavalier Berlusconi sembrano
ancora rappresentare l’arma migliore nelle mani di un’opposizione che, a
tutt’oggi, conta più sugli errori del leader rivale che sull’appeal della
propria politica.

La risposta probabilmente va cercata in un ragionamento più strategico di
quelli a cui ci hanno abituato i leader ulivisti. Un calcolo per una volta a
lungo raggio, non fondato sull’opportunità immediata. I capi della
Margherita, e ancor più quelli della Quercia, mirano davvero a quel «paese
normale» di cui si riempiva la bocca qualche anno fa Massimo D’Alema. In
concreto a un paese «normalizzato», in cui lo scarto tra destra e sinistra
sia minimo, in cui non ci sia agibilità poiitica per opzioni che contrastino
la razionalità di un sistema di fatto unipolare. Un Italia normalizzata
nella quale sia ridotto all’osso lo spazio per qualsiasi opzione radicale.
L’insoffernza diessina di fronte alla protesta della Cgil nel 2002 è da
questo punto di vista l’esempio più eloquente e definitivo.

Questo obiettivo non può però essere raggiunto se non in presenza di una
destra altrettanto normalizzata e perbene, depurata da ogni pulsione
radicale o antisistema. E’ solo con una simile destra che l’Ulivo potrà
realizzare il miraggio che insegue da un decennio e oltre, quello di un
paese bipolare, basato sulla regola dell’alternanza, a tutti gli effetti
«normalizzato».

In tutta evidenza non è questa la destra di Bossi e Berlusconi. Sia la Lega,
esplicitamente, che il partito di Arcore, celatamente, incarnano infatti a
modo loro una radicalità incompatibile con il progetto ulivista, e diessino
in particolare. Le loro radici, rispettivamente antisistema nel caso di
Bossi, plebiscitaria e insofferente a ogni regola in quello di Berlusconi,
precludono a quei partiti ogni possibilità di incarnare il modello
necessario al centrosinistra per coronare il proprio progetto. Inoltre, in
virtù delle stesse pulsioni, alimentano una radicalità a sinistra che i capi
dell’Ulivo mirano invece a cancellare una volta per tutte. Anche in questo
caso, l’esempio del 2002, il movimento che ha fatto seguito all’incauto
attacco contro l’art. 18, è esaustivo.

Di qui la necessità di puntare su un’altra destra, ovviamente quella ex dc
di Casini, ma soprattutto quella di una An depurata da ogni ombra del
passato. E’ quella la destra di cui Rutelli, Fassino e d’Alema hanno
bisogno. Si può capire dunque perché, quando chiedono a Fini di eliminarela
fiamma dal logo del suo partito, sperino con tutto il cuore che la loro
richiesta sia accettata.