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Fabio Mini: un generale inconsueto parla della guerra

Publie le lunedì 22 dicembre 2003 par Open-Publishing

Un libro uscito quasi contemporaneamente a quello di Violante sullo steso argomento, presso la
stessa casa editrice e con argomento assai simile, appare di gran lunga più interessante di quello
del presidente dei deputati DS, non foss’altro che per l’esperienza accumulata dall’autore in
diversi incarichi importanti. Fabio Mini infatti è un generale che è stato incaricato di seguire le
esercitazioni della 4a Divisione meccanizzata USA, e tra i vari incarichi ha ricoperto anche quello di
addetto militare in Cina, di direttore dell’Istituto superiore di Stato maggiore Interforze, di
capo di Stato maggiore del comando Nato delle forze alleate Sud Europa. Ha anche comandato per un
anno l’operazione di peace-keeping NATO in Kosovo. Insomma ha accumulato una bella esperienza
diretta. Inoltre fa parte della redazione della rivista "Limes" a cui collabora da tempo.
Il titolo è già stimolante: La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell’epoca
della pace virtuale (Einaudi, Torino, 2003).

Nel libro tuttavia si distinguono due parti diverse: una teorica, con riflessioni a volte utili, a
volte discutibili (ma sempre frutto di una conoscenza diretta di fonti inconsuete per un ufficiale
superiore del nostro esercito). Tra queste molte riflessioni di strateghi cinesi contemporanei, e
molte osservazioni sul ruolo della criminalità in Cina e in Giappone, ma anche digressioni sulla
storia dell’impero cinese sotto gli Zhou tra il 1122 e il 770 a. C., o sull’assedio di Pechino nel
1550 da parte del Khan mongolo Altan, un po’ fastidiose perché le comparazioni tra un impero
dell’antichità e l’imperialismo del XX e XXI secolo, o tra i khan mongoli e gli eserciti moderni non
servono a molto. A meno che, seguendo l’esempio di un autore che cita e apprezza, Igor Man, Fabio
Mini voglia "tatticamente" inserire alcune verità scomode in un contesto "culturale" apparentemente
neutro, come fa appunto Man quando comincia i suoi articoli con una sura del Corano.
Mini nell’introduzione su la "voglia di impero" (concetto usato senza pensare ovviamente ai nostri
dibattiti su impero e imperialismo), e nelle prime due parti ("Occidente e Oriente" e "Guerra e
guerrieri") dice già diverse cose condivisibili: ad esempio che "molti interventi armati di questi
ultimi anni hanno avuto come principali beneficiari non gli Stati stessi ma (...) le singole
corporazioni", che hanno spesso bilanci superiori a quelli di decine e decine di Stati; e anche che
"oggi la guerra è (...) possibile' soltanto come manifestazione di un ritorno all'ordinamento confessionale. Laddove la nuovaconfessione’ è il mercato.

Un passo indietro di cinque secoli
nell’ordinamento giuridico della guerra e uno di dieci per la componente di fanatismo che tale ordinamento
comporta" (p. 29)
All’interno della seconda parte, un paragrafo su "Come cambiano i guerrieri" fornisce dati
interessantissimi sul "fenomeno del mercenarismo", assai più vasto e istituzionalizzato di quel che si
pensi, che gestisce la maggior parte dei compiti di sostegno agli eserciti regolari, dal catering
alla costruzione delle basi militari. "Le compagnie private stanno poi assumendo per conto dei
militari (e ovviamente di tutte le organizzazioni committenti) anche veri e propri compiti operativi
che una volta non era assolutamente immaginabile fossero attribuiti a dei civili. Compagnie private
fanno la guardia a istallazioni militari anche nei teatri operativi, gestiscono le comunicazioni,
forniscono intelligence specializzata, effettuano attività di sminamento, sorveglianza aerea del
campo di battaglia e così via. Basta pagare". (p. 126)

E naturalmente i costi aumentano, anche se aumentano le violazioni di ogni norma. Non è un
fenomeno nuovo, dato che l’eruditissimo Mini fa riferimento ad attività irregolari organizzate in Kenia
già nel 1951-1952 per screditare (e massacrare) i nativi, ingigantendo il pericolo dei Mau Mau, a
cui una campagna internazionale di stampa attribuiva migliaia di vittime innocenti tra i "bravi
coloni bianchi" mentre dalle memorie del gen. Frank Kitson che organizzò le bande irregolari si
desume che il bilancio finale vero fu di 22 (ventidue!) bianchi uccisi rispetto agli oltre ventimila
nativi assassinati.
Ma insinua anche qualcos’altro di più inquietante, sulle infiltrazioni di esponenti delle forze
speciali inglesi nel WWF e in Greenpeace, al momento degli attacchi alle navi francesi a Mururoa
(oltre alla già nota presenza di addestratori inglesi nell’organizzazione di Al Qaeda).

A proposito di questa organizzazione e di Osama bin Laden, Mini dice che "non è certo che ci abbia
ideologicamente rimesso dalla distruzione del regime dei talebani, dal nuovo atteggiamento ostile
degli USA nei confronti dell’Arabia Saudita, dall’instabilità tra India e Pakistan, dalla precaria
situazione degli americani in Asia, o dagli esiti della guerra contro Saddam Hussein". (103)
Tracciando un bilancio dell’intervento in Afghanistan Mini osserva che "paradossalmente potremmo
trovarci nelle condizioni di aver risolto il problema della formazione dei quadri di Al Qaeda per i
prossimi venti anni. (...) Il rischio reale è l’incremento della potenzialità clandestina e la
dispersione dei centri del terrore. Questo ovviamente nell’ipotesi che la rete di Al Qaeda fosse
diffusa, organizzata, efficiente e nel massimo del proprio vigore e della propria virulenza come si è
supposto e come molti stanno cercando di dimostrare."(p.197)

Non si sa se per gli organizzatori statunitensi e italiani delle campagne "terroristiche" sui
pericoli di Al Qaeda è più grave la prima affermazione (sul rafforzamento del terrorismo in seguito
alla guerra) o la seconda, che mette in dubbio la presentazione di Al Qaeda come quasi onnipotente.
D’altra parte, osserva il generale, "anche se la rete non fosse stata il gioiello di
organizzazione criminale e ideologica che oggi si crede e si fosse trovata nella sua fase discendente e
conclusiva, il problema non sarebbe più semplice. Senza la preventiva capacità di controllare il tessuto
esterno, la rottura del bubbone afghano ha provocato la dispersione fisica e ideologica del
terrorismo e del potenziale antioccidentale in ogni parte del mondo". Bel risultato!
Ma sul terrorismo Fabio Mini fa altre osservazioni utili a smantellare le campagne
propagandistiche (definite "quasi paranoiche") che hanno preparato e accompagnato le ultime guerre, e hanno avuto
la conseguenza di renderci incapaci di distinguere: "«scopriamo» terroristi fra i nostri vicini di
casa, fra i nostri amici, nelle comunità dei poveracci come negli alti livelli della finanza".

Come combatterli? Impossibile eliminarli tutti, quelli attivi e quelli potenziali. Per i primi, forse
al massimo 10.000 persone in tutto il mondo, è difficile la localizzazione e non servono i
bombardamenti, ma quelli potenziali possono essere valutati a miliardi di persone. Che fare? Sterminarli
tutti?
Mini rifiuta anche di banalizzare la questione delle radici sociali del terrorismo, e le ricerca
non tanto in una generica miseria o sottosviluppo, quanto nelle distorsioni lasciate in eredità dal
passato coloniale. Non sempre la panoramica che fa della sua diffusione geografica è convincente,
ma è indubbiamente molto più seria dei soliti luoghi comuni che ad esempio ripete Violante.
Mini lamenta che mancano fondi per le attività di intelligence, che potrebbero scovare i veri
terroristi, mentre aumentano vertiginosamente quelle per la guerra. Parlando dell’attuale gruppo al
potere negli Stati Uniti egli dice senza troppe reticenze:
"Essi sollecitano alleati e amici a spendere per la difesa soprattutto comprando quello che
l’America mette a disposizione, che poi non sempre è quello che ha di meglio o che costa meno.

Ovviamente, tutto questo nasce dalla minaccia che è totale. Fortunatamente questi personaggi non
rappresentano tutti gli americani e neppure tutti quelli che hanno posizioni di potere e responsabilità.
Tuttavia, rappresentano una nuova generazione di «terrorizzati» incapaci di agire al di fuori della
logica della guerra e degli interessi, specialmente economici, del proprio sistema. Il terrore,
tuttavia, non è soltanto il padrone della loro mente (qui Bin Laden ha fatto un ottimo lavoro), ma
anche il solo strumento di cui dispongono per fare affari, influenzare le decisioni e imporre un
modello totale che in ogni caso sanno di non poter controllare pacificamente. In questo caso sono dei
piazzisti del terrore."
Non c’è male come franchezza, anche se si dice che "fortunatamente" costoro non rappresentano
tutta l’America (ed è vero) e neppure tutti quelli che sono al potere oggi (un po’ meno vero). (p.73)

Con la stessa franchezza e disinvoltura Mini descrive poi gli intrecci tra criminalità organizzate
e compagnie di mercenari, dall’Africa alla Russia all’America Latina (pp. 118-135). Basterebbe
questo a giustificare l’interesse per questo libro, che a tratti fa venire in mente quello che il
generale dei marines Butler disse nel 1933, quando andò in pensione: "la guerra è solo un racket" e
viene gestita "a vantaggio di pochissimi e a spese delle masse".
Ma la parte più significativa e utile del libro è la terza, dedicata a "I dopoguerra". Qui pesa la
conoscenza diretta di alcune esperienze come quella del Kosovo, anche se Mini segue con attenzione
anche altri scacchieri.
Ci sono ad esempio molte pagine dedicate all’Australia, il primo "vicesceriffo" riconosciuto dal
"caposceriffo" (gli Stati Uniti), severamente criticata attraverso una corretta ricostruzione delle
complicità con l’Indonesia di Suharto, in particolare a Timor Est, a proposito della quale si
scrivono parole severe anche sull’ONU.

Fa piacere scoprire tra le fonti di Mini i preziosi libri di
John Pilger.
Su quello che Fabio Mini scrive sul Kosovo occorrerebbe il doppio di spazio di quello a
disposizione, per esaminare sia la severa disamina delle bugie di guerra, sia l’attenta descrizione di
problemi rimasti irrisolti. Ma segnaliamo solo una "chicca": il nostro coltissimo generale si è preso
la briga di leggere anche Impero di Toni Negri e Michael Hardt, e ne riferisce, proprio dopo aver
descritto l’intervento dell’ONU nella ricostruzione del Kosovo, una delle tesi di fondo:
"Essi ritengono che un nuovo capitale globale, agendo mediante l’ONU, il G8, il FMI e il WTO,
abbia creato una sovranità imperiale che lega le fazioni dominanti del centro e della periferia in uno
stesso sistema di oppressione mondiale. Essi ritengono anche che si sia costituito un nuovo ordine
giuridico mondiale «ispirato alla costituzione americana», che prevede il trasferimento di
sovranità all’ONU, centro dell’impero."

Fabio Mini commenta stupefatto che "l’ONU non potrà mai essere un impero per il semplice fatto che
un impero è credibile se controlla i fattori di potenza, vale a dire se dispone di un apparato
ideologico, di risorse proprie, di strumenti di forza e, soprattutto, di una burocrazia efficiente".
In realtà l’ONU, quando "non si squalifica da sola", può avere un valore morale e simbolico, un
qualche valore diplomatico, ma "quasi nessun valore di potenza perché non ha esercito, non ha
risorse, non ha ideologia, e in Kosovo ha dimostrato le limitazioni di efficienza dell’immenso apparato
burocratico di cui dispone". (p. 223) A quanto pare un generale colto e attento può capire meglio
di certi compagni l’inconsistenza delle tesi di Negri e Hardt, usando un serio criterio
materialistico (grande assente, ahimè, tra le file di gran parte della sinistra).
Anche sull’Afghanistan, in polemica esplicita con il trionfalismo di Rumsfeld, ricorda che la
vittoria "contro un avversario che non si è rivelato né potente, né determinato" è stata solo
apparente.

"La guerra in realtà continua". Il successo di una guerra deve essere commisurato agli
obiettivi che ci si proponeva e al dispendio di risorse.
"Una vittoria del livello tattico, è veramente tale se ha contribuito al successo dell’azione
operativa in cui era inquadrata, e questa è tale soltanto se ha contribuito al successo strategico e
questo a sua volta ha determinato il successo politico connesso con l’operazione. Ci sono state
guerre che nonostante grandi vittorie tattiche non hanno portato nessun beneficio strategico e
politico. Ci sono state guerre inequivocabilmente perdute duranti le quali il perdente non è mai stato
sconfitto in una sola battaglia. Gli americani in Corea, in Vietnam, in Somalia non hanno mai
perduto un solo combattimento. Tecnicamente non hanno mai sostenuto perdite tali da essere considerati
battuti eppure non sono riusciti a stabilire i risultati strategici e politici che intendevano
raggiungere, e hanno definitivamente perduto". (pp. 185-186)

Sull’Iraq il libro, pubblicato in ottobre (prima dell’attacco alla caserma di Nasiriya) e scritto
presumibilmente prima, pone non pochi problemi. Il titolo del capitolo, ironico, è "Grazie,
America", e allude agli effetti imprevisti e indesiderati di una "guerra" apparentemente facile. Anzi,
non una guerra in senso ortodosso: "si potrebbe chiamare ricognizione armata, spedizione punitiva,
colpo di mano su larga scala oppure semplice corruzione di un sistema fatiscente di funzionari che
si è venduto in blocco alla CIA e si sarebbe più vicini alla realtà". (p. 253) Altro che retorica
sugli eroi!
A più riprese Mini irride non solo alla leggenda delle "armi di distruzioni di massa" ma anche
alla presentazione dell’esercito iracheno come un vero esercito: "La resistenza di Saddam non c’è
stata. I combattimenti di poche unità intrappolate sono stati soltanto la manifestazione
dell’iniziativa di pochi comandanti e non di un piano operativo integrato di difesa nazionale.

Non poteva
essere altrimenti. Dopo le devastazioni di due guerre e oltre un decennio di martellamento continuo,
di sorveglianza aerea e di sanzioni, l’esercito iracheno non poteva che essere allo sfascio."
Mini cita poi un ufficiale uscito dall’Iraq pochi mesi prima della guerra, che aveva candidamente
dichiarato: "I carri armati e i veicoli da combattimento sono relitti della guerra del 1980-1988
con l’Iran. Hanno disperato bisogno di parti di ricambio e gli uomini hanno basso morale e forti
carenze di equipaggiamento. In alcuni casi non hanno neppure le scarpe". (p. 268)
Fabio Mini denuncia l’insensatezza del governo degli Stati Uniti, che ha aggravato tutti i
problemi, forse accecato dalle sue stesse menzogne. "In sostanza, l’America ha finalmente e chiaramente
detto che può benissimo fare a meno di tutti." Anzi meglio, così non ci sono testimoni.

"Grazie America! Ringraziano quelli che non hanno mai creduto che la lotta al terrorismo potesse
essere condotta con i cannoni e i carri armati. Quelli che si sono dovuti sorbire le litanie di
Oriana Fallaci sulla guerra come impegno mondiale e corale. Quelli che temevano di essere
rincitrulliti quando avvertivano che il terrorismo non si annulla eliminando «semplicemente» degli Stati.
L’America in Iraq, prima e durante la guerra, ha incontrato un solo terrorista suicida. Un pazzo in
taxi. Per tutto il resto della campagna di guerra l’America ha dimostrato che i terroristi erano
ancora fuori e che con la guerra possono soltanto aumentare e non diminuire: in tutto l’Oriente e
l’Occidente. Dopo la guerra, in una situazione di caos e anarchia, gli atti terroristici aumentano
di giorno in giorno" (p. 284)

La conclusione generale è severissima, e contraddice tutte le sciocchezze dette dai nostri
governanti:
"La realtà è che l’impero della guerra di questo millennio, sottoposto alle spinte dell’impero del
terrore, del crimine, dell’economia e di quant’altro, è concettualmente e intellettualmente
regredito. Si ritrova in una fase primitiva in cui misura la propria efficacia dalla potenza e dalla
distruzione che riesce a esprimere. Non è in grado di calibrare l’uso della forza sugli scopi da
ottenere, così come non riesce a immaginare un dopoguerra che faccia parte del processo della guerra
stessa al punto di dettarne le condizioni." (p. 290)
Pensando solo al "prima" e non al "dopo" rischiamo di trovarci in "un dopo di cui abbiamo perduto
il controllo", in "arcaiche comunità di sopravvissuti, le nostre isole di criminali, di relitti
umani.

Di avere i nostri robot burocratici e tecnocratici, in doppiopetto o in uniforme, pronti agli
ordini del computer centrale e dipendenti dall’umore di un sopravvissuto piccolo piccolo che ogni
tanto spinge un tasto. Di avere i nostri mutanti, alieni, terroristi ed estremisti che si stanno
diffondendo come un virus su tutto il pianeta. Un pianeta che sia già delle scimmie" (p. 291).
Forse esagera un po’. Comunque non dispiace scoprire che in Italia c’è un generale non "integrato"
ma "apocalittico", che ragiona con la sua testa e dice quello che pensa. Anche se è un’eccezione
pressoché unica.

La redazione di Bandiera Rossa News