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G8 alla scuola Diaz di Genova : «Fu una retata con violenze e prove false»
Publie le mercoledì 29 settembre 2004 par Open-PublishingL’atto d’accusa in 255 pagine: la polizia «cercava il riscatto finale», per questo i funzionari «hanno mentito» e portato le molotov fasulle. Canterini e i suoi accusati del pestaggio
di ALESSANDRO MANTOVANI
Conviene cominciare da chi non sarà mai processato, per un motivo o per l’altro. La procura di Genova non ha certo pensato di sparare nel mucchio dei duecento e passa poliziotti (il numero esatto non si è mai saputo) che intervennero, la sera del 21 luglio 2001, alla scuola Diaz di Genova, o tra quelli che li avevano mandati. Non è mai stato inquisito il capo della polizia Gianni De Gennaro, che era a Roma ma in costante contatto con i suoi uomini e senza dubbio ebbe gravi responsabilità nella svolta repressiva decisa al termine di due giorni di scontri al G8, che culminò in quella «perquisizione».
Nessuna ipotesi di reato ha mai sfiorato l’ex questore di Genova Francesco Colucci e l’ex vicecapo della polizia Ansoino Andreassi, entrambi presenti alla riunione che decise il blitz; né il portavoce della polizia Roberto Sgalla, che parlava di «ferite pregresse» fuori dal cortile della scuola. E ancora, sono usciti di scena i picchiatori, quelli del VII nucleo del reparto mobile (ex celere) di Roma, che entrarono per primi e fecero gran parte del massacro (61 feriti di cui tre in prognosi riservata), e quelli di altri reparti, in divisa o in borghese: nessuno dei 93 arrestati è riuscito ad attribuire specifici episodi di violenza ai singoli agenti, quasi tutti con il casco in testa e il fazzoletto sul volto.
Sarà infine archiviata la posizione di Lorenzo Murgolo, già vicequestore di Bologna e oggi al Sismi, perché si è rivelato impossibile inserirlo nella complessa catena di comando. E altri funzionari si sono salvati dalle accuse di falso e calunnia perché, pur avendo sottoscritto o redatto i verbali di arresto e di perquisizione, in realtà non avevano partecipato alle operazioni, e pertanto non è accertato che sapessero cos’era accaduto. La responsabilità penale è cosa seria: «Non si è chiesto - hanno scritto i magistrati - il rinvio a giudizio degli imputati per veder loro applicato una sorta di contrappasso, ma si è cercato al contrario di distinguere ed analizzare le responsabilità in un modo che non è stato certamente usato nei confronti delle vittime della operazione Diaz».
Le duecentocinquantacinque pagine della memoria illustrativa depositata il 23 settembre dai pm Francesco Cardona Albini e Enrico Zucca offrono, per la prima volta, le motivazioni analitiche della richiesta di rinvio a giudizio che fa tremare i vertici della polizia di stato. Le riunioni in questura, l’organizzazione del blitz, la cronologia del suo svolgimento, il passaggio nelle mani dei funzionari più alti in grado nel cortile, la storia della falsa coltellata, la redazione e la sottoscrizione dei verbali, l’estensione della perquisizione al media center della scuola Pascoli di fronte. A ciascuno degli imputati sono contestate condotte specifiche. Sul frontespizio della memoria c’è l’immagine ormai famosa di Lena Zuhlke, bionda tedesca classe 77, che esce dalla scuola in barella con una maschera di sangue sul volto. Aveva le costole rotte e infilzate nel polmone.
Di quel pestaggio indiscriminato, e feroce risponderanno (per lesioni gravi in concorso) l'ex comandante della celere romana Vincenzo Canterini, di recente incredibilmente avviato alla promozione a questore, il suo vice e i capisquadra del VII nucleo antisommossa creato (e poi ufficialmente disciolto) proprio per il G8 genovese del luglio 2001, e chiamato a intervenire per la prima irruzione nell'edificio di via Cesare Battisti, dove i no global dormivano o si preparavano per la notte. Ma gli imputati eccellenti sono altri, i dirigenti e i funzionari presenti alla Diaz; pezzi da novanta come i due vicedirettori dell'antiterrorismo, Francesco Gratteri e Gianni Luperi, e investigatori che dirigono squadre mobili e digos in mezza Italia. Quelli che comandavano sul posto o sono stati individuati tra i firmatari dei verbali di sequestro e di perquisizione.
Tutti costoro, indagati inizialmente per concorso inizialmente per concorso in lesioni, hanno evitato quell'imputazione perché all'inizio rimasero all'esterno, non erano ancora arrivati o comunque non parteciparono alle prime fasi dell'irruzione. Rispondono di falso ideologico, calunnia e abuso d'ufficio per le due famose bottiglie molotov portate nella scuola dalla stessa polizia e altri «oggetti atti a offendere» come le aste degli zaini chiamati «mazzette ricurve», i coltellini da campeggio e gli attrezzi trovati in un cantiere, tutto materiale attribuito, indistintamente, ai 93, arrestati per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione al saccheggio. Al di là dell'«uso brutale della forza su persone inermi» fu «un'eccezionale
débâcle’ giudiziaria», concludono oggi i pm. Gli arresti, in massima parte, non furono neppure convalidati. E il procedimento contro i poliziotti, ricorda oggi la procura, cominciò proprio con le denunce dei giudici, che invece di convalidare gli arresti raccolsero le testimonianze sui pestaggi.
Come era stato possibile? «Dall’iniziativa dei giudici era già posta l’ipotesi - scrivono oggi i pm - divenuta sempre più realistica con l’evolversi dell’inchiesta penale ed attraverso l’acquisizione di inoppugnabili dati investigativi, che alla base dell’eccezionale débâcle sul piano giudiziario di un’operazione avvenuta sotto la luce dei riflettori, vi fosse un’inquietante e tuttavia semplice risposta: I poliziotti dovevano aver mentito'. E' una citazione che non fa onore alla polizia italiana, accostata dai pm a una delle peggiori pagine del dominio britannico in Irlanda del nord, la strage al pub di Guilford nel
74: vennero condannati all’ergastolo quattro irlandesi innocenti, che scontarono 15 anni senza che nessuno dei poliziotti responsabili pagasse mai il prezzo della calunnia. Jim Sheridan ne ha tratto un film, In nome del padre. E «The officers must have lied», «i poliziotti dovevano aver mentito», fu «l’amaro e sbigottito commento del giudice inglese Lord Lane, che restuì la libertà» ai quattro di Guilford, ricordano i magistrati genovesi citando il libro di David Rose, In the Name of the Law (Jonathan Cape, London, 1996).
Perché andarono alla Diaz? Non fu una «spedizione punitiva», concludono i pm. Dopo due giorni di scontri e di cariche indiscriminate, con la morte di Carlo Giuliani e centinaia di feriti nelle strade di Genova, lo scarso numero di arrestati (meno di 100) contribuiva a deprimere l’immagine delle forze dell’ordine. «Per certi aspetti l’intervento è vissuto e presentato come una sorta di riscatto finale», osservano i pm dopo aver ricostruito anche le ore successive all’operazione. Tanto per dirne una, firmarono i verbali in tredici: come per mettersi una medaglia. E uno dei firmatari, siccome i poliziotti mentono, non è mai stato individuato.
L’obiettivo era «una retata», parola che compare più volte nella memoria d’accusa. «Le fasi dell’irruzione con il suo esito cruento e della successiva perquisizione con le sue modalità particolari' riflettono singolarmente un'impostazione che non poteva avere altro esito se non l'indiscriminata retata di prigionieri». La presunta sassaiola contro auto della polizia che erano passate vicino alla scuola, indicata tra mille contraddizioni come motivo della perquisizione, nella memoria è declassata a «occasione pretestuosa per imbastire ciò che ad un certo punto è divenuto obiettivo ritenuto concretamente praticabile, soprattutto dal punto di vista dell'opportunità
politica’: una perquisizione in massa proprio nei centri di organizzazione della contestazione al vertice del G8».
«Pur senza voler dar credito - prosegue la memoria - alle voci riferite da alcuni testimoni sulla circolazione di informazioni circa una consistente operazione di polizia, quale quella poi effettivamente avvenuta alla Diaz, non può negarsi come quest’ultima appaia una scelta operativa non del tutto casuale, bensì quale conseguente sviluppo ed espressione di una direttiva che ha considerato matura ed opportuna, quella notte, una iniziativa dal rischio tattico-militare e politico-sociale enorme e che perciò si fatica a considerare estemporanea, così come ufficialmente descritta».
All’obiettivo-Diaz «si è pervenuti nell’ambito di una direttiva di politica criminale che si è formata, espressa e consolidata proprio nella fase finale delle giornate del vertice genovese. L’evolversi di un sostanziale cambiamento nell’azione delle forze di polizia in una direzione marcatamente repressiva, a partire dalla giornata di sabato 21 luglio 2001, è un dato difficilmente smentibile, e non a caso le dichiarazioni del prefetto Ansoino Andreassi possono considerarsi ampiamente riscontrate. Dalle dichiarazioni acquisite al livello apicale del dipartimento di ps e dai funzionari di grado più elevato appare invece una sorta di imbarazzo». Secondo i pm quella svolta «repressiva», al secondo giorno di scontri, coincise con la decisione di De Gennaro di spedire a Genova il prefetto Arnaldo La Barbera, allora capo dell’antiterrorismo (Ucigos) e scomparso nel 2002.
Fu lui, prima della perquisizione, a presiedere le riunioni in questura, mentre il vicecapo della polizia Andreassi si faceva da parte. E già nel corso della giornata, in via Maggio, la nuova «direttiva» aveva portato a una prima «retata» per associazione a delinquere, ipotesi piuttosto rara per un arresto in flagranza. Non a caso era opera dello Sco, il Servizio centrale operativo guidato da Gratteri, dirigente molto vicino a De Gennaro.
«Tutte le condotte oggetto di contestazione agli imputati ed altre che non possono essere loro attribuite, ma parimenti verificate, nel corso della operazione Diaz, sono espressione della dimostrata convinzione che aggiustare' o
migliorare’ artificialmente gli elementi di prova nei confronti di alcuni soggetti sia operazione che non comporti deviazione dal fine istituzionale, ma anzi sia richiesta dalla necessità di perseguirlo. Come è stato efficacemente descritto, si tratta di un’idea che origina da intenzioni del tutto commendevoli e che si traduce nei comportamenti illegali, ma ritenuti ammissibili, proprio allorquando si constata che le regole e le procedure produrrebbero il risultato di impunità per i soggetti che si intendono perseguire, di fatto ritenuti colpevoli». E’ la «noble cause corruption», «il corrompersi per una nobile causa», seconda citazione di In the name of Law e della drammatica vicenda dei quattro di Guilford.
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/28-Settembre-2004/art40.html