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Il potere è violento ma opporsi con la spada perpetua il potere...
Publie le martedì 20 gennaio 2004 par Open-PublishingDiversi, legittimi e di indubbio interesse sono stati finora i modi di
affrontare il dibattito sulla non violenza, evocando infatti il solo
termine ‘non violenza’ si destano emozioni, riflessioni, propositi: è una
discussione che ci coinvolge in quanto persone, finalmente.
Al cuore della stagione apertasi con il ’68, che rompeva gli schemi
istituzionali tradizionali con un tumultuoso processo di sconvolgimenti
dello stesso modo di fare "politica" - il personale dello studente,
dell’operaio, della donna è politica (si sosteneva) -, c’era critica del
potere e dei suoi linguaggi. A questa innovazione si sovrapposero una
pratica e un’ideologismo dei partitini che ripetevano i rituali del
terzointernazionalismo. Questo si presentò purtroppo anche nella sua
incarnazione più tragica, e farsesca al tempo stesso - in quella del
partito armato per compiere la giustizia proletaria. Contro questa
riapparizione di un’avanguardia che in nome del destino storico del
proletariato e del comunismo si arrogò il massimo dei poteri - di dare la
morte - ci ergemmo in molti e acquisimmo la consapevolezza - con
l’assassinio di Moro - che l’avanguardismo, con la sua autoreferenzialità,
è la coltura del fanatismo ideologico che scambia la propria azione con il
"fare" della storia e le proprie elucubrazioni con la verità assoluta - che
gli discenderebbe dal possedere la bibbia delle leggi del divenire sociale.
Ci si presentò con forza drammatica il problema di chi e di come si decide
nella società: chi è il popolo, come e quando parla. Il ’68 cominciò
un’opera di decostruzione del potere e delle sue manifestazioni quotidiane
– a scuola, in famiglia, nelle istituzioni ‘totali’, oltre che nei luoghi
classici della fabbrica e dello stato -, ma quell’opera si è interrotta.
Il potere. Questo è l’oggetto della questione. A mio avviso Bertinotti non
ha tanto evocato un problema di analisi storica se non per delineare una
questione squisitamente teorica, e specificamente di teoria normativa. Gli
è stato anche risposto che le generalizzazioni oscurano le differenze, che
c’è bisogno di discernere caso per caso: così si rischia però di ricadere
nello storicismo giustificazionista. Il problema non è giudicare il
passato, è di vedere quello che dobbiamo fare oggi riflettendo anche sul
passato; non è una questione di contingenze e circostanze: è il tema
classico del potere, dunque un nodo di analisi teorica e di invenzione
politica.
Sulla futura, che speriamo di realizzare, società si è tutti apparentemente
d’accordo: senza sfruttamento, senza patriarcato, con relazioni solidali,
partecipazione alle decisioni collettive e autonomia della persona nel
perseguire il proprio progetto di vita (superando così un rozzo
collettivismo da caserma). Ma il punto dolente è come giungere a questa
società. C’è chi, come Tronti con i consueti accenti nicciani, invita i
movimenti a dotarsi di una volontà di potenza pari a quella di Bismarck:
questa mi pare una proposta isolata, anche se a sostenerla è Tronti che si
assume addirittura l’intero peso della storia del movimento operaio sulle
spalle (come Atlante). Bernocchi, Bersani, Cannavò e Casarini mettono
invece al centro delle proprie riflessioni il potere, e la sua violenza.
Ripropongono un’analisi classica: nella società capitalistica il potere è
concentrato nello stato, che esercita il monopolio, peraltro legittimo e
legale della violenza. Esso agisce - legalmente quando è sufficiente, e
violentemente quando è necessario - per impedire i processi di
trasformazione: anche se ci fosse uno slittamento della sovranità, verso il
basso o verso l’alto, esso si ferma a una soglia, quella oltre la quale i
movimenti minerebbero le fondamenta della società capitalistica.
Insomma, sostengono, dietro Locke c’è sempre il Leviatano di Hobbes, dietro
il purismo dell’ordinamento normativo di Kelsen c’è lo ‘stato d’eccezione’
di Schmitt: la violenza è una manifestazione necessaria dell’organizzazione
statale - la guerra la sua pratica quotidiana, tanto più oggi che è
divenuta permanente.
E’ questo che ci divide? Certo, in termini di analisi, si dovrebbe andare
più a fondo: per esempio esaminare il ruolo della sovranità
nazional-statale, e il suo lascito autoritario alla stessa versione
popolare della sovranità, che si è dovuto incanalare nell’alveo del
costituzionalismo per evitarne derive assolutistiche. Non è la violenza del
potere l’elemento di discussione: questa riguarda il come superare quella
violenza nella prassi trasformatrice delle classi e delle persone oppresse.
Qui lo storicismo, la comprensione del caso per caso si tramuta in
positivismo proceduralistico: essendo avviluppate dalla violenza del potere
le lotte sono costrette anche a forme non-non violente, che "possono
scegliere di essere partecipate, co-decise… mezzi autodeterminati avendo
come fine un mondo migliore". La citazione mette in luce un paradosso,
quello proceduralista: una violenza si legittima perché è decisa da una
maggioranza? E chi garantisce che la maggioranza abbia ragione? L’efficacia
storica dell’azione, cioè l’utilitarismo dell’atto? Siamo a Bentham. Anche
i capitalisti fanno il computo dei costi e benefici e sostengono che il
prezzo dello sfruttamento è compensato dallo sviluppo delle forze
produttive e dal benessere, sia pure diseguale Si scrive ancora: si
scelgono i mezzi migliori per raggiungere i propri fini. E’ il calcolo
razionale della scuola della ‘scelta pubblica’, che definisce razionali i
mezzi più economici per raggiungere un fine.
Siamo alla scissione di morale e politica, che il movimento no global ha
giustamente messo in crisi, revocandone la validità, sostenendo invece che
le scelte morali sono politiche: la pace è un valore assoluto che
sovradetermina le opzioni politiche. Dopo la seconda guerra mondiale venne
superato il positivismo, perché fonte di legittimazione di qualunque stato,
e venne riarticolato il nesso tra morale, politica e diritto. Oggi il
movimento prosegue quel lavorio teorico e pratico.
Solo superando la scissione dei mezzi dai fini, si raggiunge una idea
regolativa capace di orientare i processi di trasformazione. Il potere è
violento, la spada è sempre pronta a colpire chi si oppone; ma opporsi con
la spada dà vita a nuove pratiche sociali di relazioni solidali e libere o
perpetua la violenza e il potere? Abbiamo mai visto qualcuno deporre la
spada, preso il potere? Questi sono i problemi, questa è la ricerca da
condurre con spirito aperto, senza anatemi e politicismi: altrimenti la
storia continuerà a vendicarsi di noi.
Liberazione