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Il problema è il governo Sharon

Publie le mercoledì 5 novembre 2003 par Open-Publishing

Se li si mette in fila, i principali paesi che nel sondaggio commissionato dall’Unione europea
vengono percepiti come «una minaccia alla pace nel mondo», descrivono il perimetro della dottrina
della "guerra preventiva" ideata dall’amministrazione Bush. Sia quando si tratta degli obiettivi
strategici degli Stati Uniti - dall’Iran alla Corea del Nord, dalla Siria all’Arabia Saudita - sia nel
caso che ha provocato enorme scandalo, quello di Israele, in quanto epicentro di un conflitto che
il mondo intero giudica ormai insopportabile. Si tratta insomma dei paesi che affollano ogni sera
la cronaca dei Tg, con immagini orribili e quindi principali induttori di quella sensazione di
minaccia che sta alla base del sondaggio. Per rendersene conto basta riflettere sulla collocazione al
quinto posto dell’Iraq, paese inesistente che pure viene indicato come minaccia alla pace. Così
come l’Afghanistan.

Insomma, l’ipotesi che da questo sondaggio si risalga a un regurgito di antisemitismo su scala
europea è piuttosto artefatta e in realtà non solo contribuisce a sottovalutare l’antisemitismo,
quello vero, molto più insidioso e pericoloso quando si esprime, ma per certi versi lo esalta. Perché
tutte le reazioni indignate cui abbiamo assistito ieri incorrono nel medesimo errore, un errore
che danneggia in primo luogo il popolo israeliano: la sovrapposizione automatica tra lo stato
israeliano e il governo di Sharon, vero bersaglio del sondaggio. Per cui ne viene fuori una replica
meccanica nella quale le accuse a Sharon mettono in discussione immediatamente l’esistenza dello stato
ebraico e quindi sono rivolte all’intero popolo ebraico. A questo automatismo non possiamo
piegarci.

Non c’è dubbio che lo stato di Israele sia un’entità che non può più essere messa in discussione.
Sarebbe antistorico pensare che una simile statualità, con quello che ormai materialmente
rappresenta, possa scomparire o essere distrutta solo per le modalità della sua nascita. E infatti, tra i
palestinesi, solo frange oltranziste ne fanno una strategia politica. Ma proprio perché come stato
Israele ha il diritto di esistere, la critica ai suoi governi non può essere ipotecata dalla spada
dell’antisemitismo che pende sopra chiunque avanzi una critica o una differenziazione. E’ una
questione nevralgica che, abbiamo la presunzione di credere, riguarda anche gli ebrei: la difesa a
oltranza di un governo che ha la guerra come unica strategia di sopravvivenza - e come non vedere i
segnali sempre crescenti di distacco della società israeliana, manifestati ancora ieri con lo
sciopero generale poi impedito dalla magistratura - non può che rendere più fragile Israele, esporlo ad
attacchi ulteriori, a un isolamento che non aiuta l’opzione della pace. E in fondo di cosa
parlavano le centomila persone accorse l’altra sera a ricordare Rabin o l’accordo di Ginevra, siglato da
esponenti della società civile israeliana con i palestinesi?

A noi sembra che l’antisemitismo non c’entri nulla con l’esito del sondaggio contestato. Che in
realtà esprime un rifiuto crescente, nel seno dell’Unione europea, verso la guerra. Della guerra
Usa, innanzitutto, che affiancando Israele in realtà si nasconde dietro quasi tutti i paesi indicati,
oggetto della minaccia della dottrina "preventiva". E della guerra di Sharon che soffoca le
speranze di pace mediorientali e che chiude qualsiasi prospettiva al dialogo: la costruzione del Muro e
la porta chiusa in faccia ad Arafat non fanno che confermarlo oltre ogni evidenza.

Ci si dice spesso che Israele è l’unica democrazia in una regione afflitta da regimi e stati
autoritari. E’ vero, ma la democrazia, se nutrita dalla guerra permanente, subisce uno slittamento
qualitativo trasformandosi in qualcosa che forse può essere difeso solo gridando allo scandalo anche
quando scandalo non c’è.