Home > Il tranviere «processa» il sindacato
Assemblee di base per continuare la lotta dopo la firma dell’accordo. I lavoratori preparano un
coordinamento nazionale e denunciano le «connivenze» tra sindacati e aziende nate negli anni della
«concertazione»
FRANCESCO PICCIONI
La firma sotto l’ipotesi di accordo sugli autoferrotranvieri sta costando cara al sindacato. Forse
si confidava nel fatto che con il passare dei giorni la rabbia dei lavoratori sarebbe sbollita;
altre volte era andata così. Ora bisogna prendere atto che non si tratta di «rabbia», di un
sentimento di frustrazione che appare e scompare con identica rapidità, ma di un processo di fuoriuscita
di massa dai sindacati «ufficiali» (quelli che hanno siglato l’intesa: Cisl, Uil, Cisal, Ugl, Cgil)
in direzione dell’«autorganizzazione dal basso». Una conferenza stampa per annunciare «lo strappo»
si è tenuta ieri sotto la pioggia - l’azienda romana Trambus non ha neppure concesso i locali per
farla svolgere - davanti al deposito di piazza Ragusa. Presenti i delegati di tutti i depositi
romani che hanno dato vita al «blocco» di sabato e domenica, non appena si è sparsa la notizia che i
sindacati avevano accettato 81 euro mensili e 970 di una tantum al posto dei 106 e dei 2.500
«dovuti» in base al contratto del 2000 e agli accordi del luglio 93 (nel «secondo biennio economico»
ci si limita infatti a verificare il livello dell'inflazione negli ultimi due anni e a quantificare
l'adeguamento salariale).
Ci tengono a precisare che parlano come «lavoratori semplici», senza riferimento a nessuna sigla
in particolare. Ma è normale sentirli parlare tra loro chiamandosi «compagno»; qualcuno tira fuori
la tessera della Cgil, facendo il gesto di buttarla via. Non sono certo ragazzi dalla «testa
calda». Abbondano baffi e capelli grigi, e i conti che ti spiattellano davanti parlano di figli a
scuola, mutui da pagare, ore di lavoro e stipendi che vanno all'indietro. I «giovani», in media, hanno
più di trent'anni.
Qui «il sindacato», per definizione, era la Cgil. Non c'è traccia di qualunquismo becero, tipo
«fanno tutti schifo». E anche questo coordinarsi spontaneo - tra «romani» e il resto d'Italia - ha un
suo ordine, una sua logica «non spontaneistica», lontana anni luce dal pressapochismo e dai toni
esagitati di situazioni più off. Eppure la denuncia è durissima, definitiva: «Il sistema di potere,
la connivenza tra organizzazioni sindacali (OO.SS.) e aziende nel settore dei trasporti è di lunga
data, viene dalla metà degli anni
70». Anche se solo «dalla fine degli anni `90 a oggi le OO.SS.
hanno svenduto con vari accordi tutto ciò che la categoria aveva conquistato in termini di
condizioni di lavoro, di tutela della salute, in nome della produttività e degli interessi di pochi, si è
permesso di assumere con contratti atipici ai limiti del ridicolo (apprendista autista!)». Anche
il ridicolo, però, ha un suo costo: gli «apprendisti», infatti, non hanno copertura in caso di
malattia. Chiedono quello che era loro «dovuto, un semplice recupero del potere di acquisto. Non siamo
né vogliamo essere privilegiati».
Perché i sindacati hanno firmato «un’ipotesi di accordo che già sapevano avremmo rifiutato»? La
risposta, secondo questi lavoratori, affonda in tre decenni di «concertazione» lentamente scaduta a
pratica di sottogoverno: «Nei trasporti, sapete chi sono i presidenti, i dirigenti, i quadri? Sono
in maggioranza ex sindacalisti» delle cinque organizzazioni firmatarie». Citano Raffaele Morese,
ex segretario confederale della Cisl, poi sottosegretario al lavoro nel governo D’Alema, oggi
presidente dell’azienda di trasporto romana, la Trambus (prima si chiamava Atac). Snocciolano una serie
di nomi meno noti, che come loro stavano «a girare la ciambella» (il volante dell’autobus),
diventati poi sindacalisti a tempo pieno, «distaccati», che «si sono fatti un accordo ad personam nel
1998 (denunciato alla procura della repubblica): dopo un certo numero di anni (5) si diventa "quadri
aziendali"». Insomma: da rappresentanti dei lavoratori a dirigenti d’azienda, secondo una «corsia
preferenziale» di cui era già noto l’approdo e che condizionava fin da subito l’approccio
«a-conflittuale» del sindacalista.
Cose risapute, pratiche tollerate con qualche mugugno finché - tutto sommato - quei sindacalisti
siglavano accordi che facevano mantenere, se non migliorare, i livelli salariali e le condizioni di
lavoro. Non più ora, dopo anni di ristrutturazioni, fuoriuscite, dismissioni, doppio regime
salariale (uno per i «vecchi» contratti a tempo indeterminato; quattro o cinque diversi, ma simili, per
tutti gli «atipici» - part time, apprendisti, formazione-lavoro, interinali, ecc). Non più ora,
dopo lo «sconto» forzoso su un adeguamento all’inflazione che era solo da ratificare.
Nasce da questo miscuglio di informazione genuina, consapevolezza, difficoltà nell’arrivare alla
fine del mese, la determinazione a «fare da soli», di rappresentare «in proprio» gli interessi di
lavoratori. Il 3 gennaio delegati di tutt’Italia si vedranno a Firenze, per dar vita a un
coordinamento stabile. In agenda c’è già lo sciopero nazionale dichiarato per il 9 gennaio e lo «stato
d’agitazione», che significa «blocco periodico dello straordinario», «applicazione del regolamento
aziendale» e «rispetto scrupoloso del codice della strada». Detto così sembra nulla ma, se si guarda
allo stato del parco macchine di gran parte delle aziende di trasporto locale e alle condizioni
reali di circolazione sulle strade cittadine, ci vuol poco a capire che potrebbero girare ben pochi
autobus per giorni e giorni, «nel pieno rispetto delle regole».
La verifica del referendum - voluto dalla Cgil, ma indigesto a Cisl e Uil - è «accettata», ma a
condizioni precise: «che si tenga entro il 20 gennaio» e che rechi sulla scheda anche la domanda
sulla cifra «prevista dalla proposta dei lavoratori in lotta», ossia i 106 euro. «Non accetteremo
imbrogli o assemblee consultive» (ne ha parlato fin qui solo la Cisl). Il fossato tra rappresentanza
e rappresentati non è mai stato così largo. Sarebbe bene rendersene conto.
Il Manifesto 30-12-03