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Insurrezione, resistenza, insubordinazione, disobbedienza...

Publie le domenica 18 gennaio 2004 par Open-Publishing

Diversamente da quanto espresso ieri da Cannavò e altri compagni non credo
affatto che l’intervento di Bertinotti abbia alimentato alcunché di ambiguo
o peggio di negativo. Prosegue semmai un dibattito di lungo periodo
rialimentatosi nel movimento dopo i fatti di Genova 2001.

Sono tra quelli che, in quel frangente, respinse l’idea che di fronte ad un
ordine pubblico palesemente uscito dai cardini, fino all’omicidio,
servissero servizi d’ordine, e non, piuttosto, forme estese e condivise di
autotutela personale e collettiva. Tra quelli che all’indomani della
manifestazione del 4 ottobre scorso ha espresso contrarietà evidente sulla
conduzione di quella manifestazione e gli effetti sul movimento. Non oggi
discutiamo dunque sull’onda di una palese operazione politico-giudiziaria
ma riprendiamo il filo di un ragionamento mai realmente interrotto.

La disobbedienza come processo sociale dimostra una straordinaria
estensione: è entrata nel vocabolario materiale di larghi settori sociali,
nelle lotte di Basilicata contro le scorie nucleari, in quelle degli
autoferrotranviari, nelle mobilitazioni per il diritto all’abitare o allo
studio. Un grande, immaginario, luogo comune nel quale la tradizione non
violenta, quella di Capitini, si confronta con altre pratiche, tra le quali
quelle comuniste ed eterodosse di molti di noi. Ne sta emergendo un
linguaggio che declina la non violenza in una forma nuova e diversa da
ciascuna di esse, fortemente attualizzata. Del che sembra non rendersi
conto anche quella parte del movimento che attribuisce a pratiche nuove
significati antichi, prigioniero di gabbie semantiche e politiche. Errore,
questo sì, che cristallizza e paralizza l’azione.

D’altro canto se il reciproco riflettersi di guerra e terrorismo va rotto
in qualche punto è all’interno di questa novità che il cuneo va cercato e
non certo in una disputa geometrica sulle forme di questa relazione. Questo
è anche il luogo nel quale si concretizza l’obiezione e la diserzione alla
guerra, in cui disobbedienza e boicottaggio acquisiscono legittimità sociale.

Non ho dubbi che l’ondata di movimenti globali sviluppatasi dal 1999 in
avanti ha portato con se l’eredità del passato e che riaffiorino i felici
detriti di un conflitto irrisolto. Che proprio la guerra, nelle sue varie
declinazioni, terrorismo compreso, ci ponga di fronte in modo più
stringente ad una necessaria e radicale trasformazione dell’esistente,
quasi ad uno stato di necessità, entro un modello di sviluppo, che per
convenzione chiamiamo neoliberista, percepito come socialmente e
ambientalmente intollerabile. Che riemerga un problema di legittimità delle
forme di lotta che si intreccia ad uno "ius resitentiae" che permea la
nostra cittadinanza.

Dalla dichiarazione giacobina del 1793 «di fronte all’ingiustizia e
all’oppressione l’insurrezione è il più sacro dei diritti dei cittadini»,
attraverso l’irredentismo italiano, l’articolo di Dossetti in sede
costituente, «la resistenza individuale e collettiva… è diritto e dovere di
ogni cittadino», lungo la guerra d’Algeria e l’insubordinazione dei 120
intellettuali francesi, attraverso la disobbedienza civile del movimento
Usa per i diritti civili, e via di questo passo, fino allo zapatismo, c’è
un filo piuttosto visibile che arriva fino a noi.

Ma è un sentiero che si modifica nel tempo, dall’insurrezione al diritto di
resistenza, all’insubordinazione, alla disobbedienza in un percorso forzoso
che mi piace pensare corrisponda ad un estendersi, un socializzarsi.

Che ci consente di parlare di non violenza con piena libertà, fuori da
categorie immutabili e da una ricerca spasmodica di coerenza tra mezzi e
fini dell’agire politico. Che non ci impedisce di leggere la violenza dei
rapporti di dominio imperanti ma senza rimandare ad un lontano futuro la
radicale rottura con essi, il posizionarsi da subito alle soglie del mondo
migliore possibile.

E’ dibattito insomma che fuoriusciti dal travisamento del giornalismo
interessato ( "Il Corriere della Sera" di "Casco sì, no, forse") può
portare lontano.