Home > L’uso del dolore
di Barbara Spinelli
IL dolore degli italiani per i caduti di Nassiriya. Il dolore dei turchi per i due attentati a
Istanbul. Il dolore dei musulmani e degli ebrei e dei cristiani, contro cui si scaglia di questi
tempi un Islam politicizzato, radicale, fanaticamente pronto non già al suicidio dei propri affiliati,
ma all’intreccio nefando fra suicidio e assassinio di tutti coloro che s’aggirano nei luoghi degli
attentati, poco importa se uomini armati o civili inermi o persone oranti in una sinagoga. Si può
capire il desiderio dei responsabili politici di immedesimarsi in questo dolore, di parlare al
posto delle vittime, di rincuorare gli animi spaventati con frasi battagliere, che promettono la fine
delle minacce e dei lutti. La pietas, dice il dizionario Battaglia, è precisamente questo: è
rispetto devoto, cura sollecita e reverente per cose e persone, e questa cura è dovuta ai caduti degli
attentati, siano essi perpetrati da Al Qaeda o da seguaci di Saddam Hussein.
Ma pietas non è solo un sentimento, specifica il dizionario: è l’osservanza dei doveri verso i
genitori, la patria, e Dio. Per i politici, in particolare, è il dovere di rispettare le
contraddizioni di un dolore, di ascoltare il messaggio complesso che si racchiude nelle lacrime, di decidere
il da farsi tenendo conto di circostanze che possono migliorare o mutare le presenti strategie. Gli
italiani e i turchi, gli ebrei e i musulmani e i cristiani piangono i loro morti, danno loro il
nome di eroi, ma vogliono anche sapere se i politici fanno la loro parte: se hanno valutato i pro e
i contro di questa guerra multiforme lanciata al terrorismo dopo l’11 settembre. Se sono capaci di
fare bilanci rigorosi, e di correggersi là dove hanno eventualmente sbagliato. Se sono disposti a
trarre lezioni dalla storia che stanno facendo. Il dolore è come una gemma splendente ma segreta,
che non può esser esibita su giacche e vestiti quasi fosse un ornamento. Il politico che se ne
veste e non risponde al suo appello finisce con l’usare il dolore e assieme ad esso la paura, senza
far nascere da esso parole veritiere e azioni coerenti.
Naturalmente la lotta al terrorismo dovrà continuare, e farsi semmai ancor più ferma, minuziosa,
assillante. Con avversari di questo tipo - veri e propri demoni, che combinano empiamente fede e
bombe - non è possibile l’appeasement, la pacifica e servile composizione del conflitto. Ma sta
rivelandosi inane anche la risposta adottata dal governo Usa e dai suoi alleati dopo l’11 settembre:
la guerra guerreggiata contro gli Stati sospetti di appoggiare il terrorismo. Guerra condotta con
armi sofisticate ma inadatte alla guerriglia, con militari addestrati a bombardare e non a
sgominare combattenti irregolari, o a infiltrare cellule di resistenza e di terrorismo sempre più diffuse
nel mondo e inafferrabili. La strategia puramente militare non sembra dar frutti, e anzi accresce
i pericoli di una recrudescenza dei pericoli, degli attentati, delle disfatte. Si fonda su una
menzogna letale, inoltre: trattando il terrorista alla stregua di uno Stato belligerante, e
dichiarando contro di esso una serie di guerre a oltranza, da condursi "fino alla scomparsa della
minaccia", crea l’illusione di una battaglia inter-statale che può esser vinta militarmente. Una battaglia
al termine della quale si spera di ottenere chissà quale capitolazione, quale trattato di pace.
Dal terrorismo non ci si può aspettare nulla di tutto ciò: né la capitolazione, né il trattato di
pace, né il riconoscimento della propria sconfitta per il semplice fatto che questo o quello
Stato-canaglia sarà stato abbattuto.
Non conoscendo confini, il terrorismo non può che guadagnare da guerre che restano ancorate ai
rapporti tra Stati, a territori circoscritti, a sovranità nazionali che vengono gelosamente custodite
negli Stati Uniti, e aggressivamente negate al nemico che Washington vuole abbattere. È quello che
sta succedendo in Iraq, e da questo punto di vista non hanno molto senso le dispute italiane sulla
natura del pericolo: se sia un pericolo terrorista, oppure partigiano. La scelta di far fronte al
terrorismo globale con una guerra guerreggiata ha permesso al terrorista di tramutarsi in
guerrigliero, in partigiano, o comunque di vedere se stesso come guerrigliero e partigiano. Gli ha
regalato un sostegno popolare che non aveva. Ha permesso a Al Qaeda di penetrare in Iraq, dove prima non
esisteva, e di organizzarsi meglio e diffondersi regionalmente in gran parte del Sud-Est asiatico
e dell’Africa orientale. Il capo dei servizi segreti tedeschi, August Hanning, ha detto giovedì
scorso in una conferenza di specialisti che Al Qaeda si è "rigenerata" a seguito della guerra in
Iraq, dopo esser stata solo momentaneamente indebolita in Afghanistan, e che "gli occidentali sono
sull’orlo di perdere la battaglia per la conquista dei cuori e delle menti nelle popolazioni
musulmane". Conclusione: "i successi che si possono ottenere sul fronte militare non condurranno alla
soluzione dei problemi".
Rispondere al terrorismo con altri mezzi non significa scegliere le vie alternative della
pacificazione, e tantomeno della sottomissione. Non significa minimizzare le colpe di chi uccide persone
inermi trasformandosi in bomba umana, o di chi assalta consolati, sinagoghe, caserme di carabinieri
incaricate dal proprio governo, più o meno in buona fede, di assolvere compiti non bellici ma
umanitari. E davvero non c’è pietas in quei sondaggi che nei siti internet chiedono agli italiani di
scegliere fra tre sole forme di lotta al terrorismo: la risposta delle armi, o della diplomazia, o
degli aiuti economici; come se non esistesse, per combattere il terrorista e prosciugare l’acqua
in cui nuota, una risposta egualmente ferrea, ma non militare.
Il finanziere George Soros, che avversa la guerra in Iraq e si sta impegnando in una vasta
operazione per contrastare la vittoria di Bush alle prossime elezioni, non banalizza i demoni che
minacciano, non giustifica in alcun modo l’attentato alle Torri del 2001 (George Soros, La bolla della
supremazia americana, "The Atlantic Monthly", dicembre 2003). L’11 settembre va chiamato, egli dice,
con il solo nome che merita: crimine contro l’umanità. Dargli il nome di atto di guerra significa
già mettersi sul piano del terrorista, e rendere più agevole il suo operare attribuendogli lo
statuto di belligerante. Significa ingaggiare una guerra infinita e seriale: senza limiti di tempo, di
spazio. Un crimine, invece, lo si fronteggia in altri modi: con armi poliziesche, con l’uso
accurato e capillare dei servizi segreti di investigazione, con l’infiltrazione delle cellule
terroriste. Lo si fronteggia anche con la prevenzione, ed è a questo punto che interviene l’opportunità di
conquistare i cuori e le menti delle popolazioni musulmane, con politiche commerciali più generose
e con aiuti allo sviluppo. Aver trasformato il terrorista in combattente partigiano è uno dei più
grandi errori delle potenze implicate nelle guerre in Afghanistan e Iraq. In ambedue i paesi la
strategia fa oggi acqua. In Afghanistan, i talebani e Al Qaeda hanno ripreso il controllo di zone
decisive, nel sud del paese e ai confini con il Pakistan; solo a Kabul il governo Karzai esercita il
monopolio della violenza. Nelle Filippine le forze terroriste di Abu Sayyaf e i 15.000 combattenti
del Moro Islamic Liberation Front hanno mantenuto intatte le proprie forze. In Iraq sta creandosi
quella stessa situazione che secondo la dottrina Bush è terreno fertile per il terrorismo: Saddam
è stato fortunatamente abbattuto, ma lo Stato iracheno è ridotto in cenere. È un "failed state",
come dicono in America gli esperti di terrorismo, e nemmeno a Baghdad è in grado di esercitare il
monopolio della violenza legale.
Le democrazie hanno una cosa che le rende superiori, solitamente, ed è l’attitudine a correggere i
propri errori quando questi si fanno più numerosi del previsto, a rettificare la rotta se
necessario. Stupisce che Bush e Blair non abbiano tentato questa strada, a Londra: che apparentemente non
l’abbiano neppure esaminata. Che non abbiano meditato, assieme e pubblicamente, sulle trappole in
cui possono cadere, sulle sconfitte che rischiano di attirare su se stessi. Quando i servizi
segreti d’una nazione alleata dicono che la guerra per conquistare le menti e i cuori delle popolazioni
musulmane "sta per esser perduta" converrebbe arrestarsi un attimo, pensare in profondità,
smettere di recitare sempre di nuovo le stesse frasi sulla guerra che deve continuare, immutata. Spinto
forse da Blair, Bush comincia a vedere l’utilità della cooperazione multilaterale, ma nel frattempo
non poche leggi e strumenti del diritto internazionale sono stati danneggiati, dunque screditati:
dall’Onu alla Croce rossa, dalle convenzioni sui prigionieri di guerra a quelle sulle
organizzazioni umanitarie. E nulla di nuovo si scorge sui fronti che per l’evoluzione dell’Islam sono
cruciali: pacificazione dei rapporti tra Israele e Palestina, trattamento giusto dei detenuti catturati in
Afghanistan e rinchiusi a Guantánamo, distinzione chiara fra quel che è terrorismo internazionale
e quel che è guerriglia locale in Iraq e Afghanistan.
In Iraq non sono state trovate le armi di distruzione di massa, non è stato scoperto un legame fra
Saddam Hussein e Al Qaeda, non è stato instaurato l’imperio della legge, e ancora non è in vista
uno Stato rappresentativo che raccolga i consensi della popolazione. Alla fine del tunnel, per ora,
non c’è che il dolore di chi è stato colpito a morte: carabinieri e soldati italiani; civili
iracheni e turchi; cristiani, ebrei e musulmani. Chi soffre non vuole illudersi, ed è probabile non
creda nel discorso che Bush ha fatto mercoledì a Londra sulla Storia che ineluttabilmente porterà al
trionfo delle democrazie nell’insieme del mondo musulmano e del globo terrestre. Il dolore che
viene interpretato e adoperato per confermare la giustezza di una linea storica provvidenziale
conduce a disastri non meno grandi, quando la manipolazione è fatta dalle democrazie anziché da
dittature totalitarie.