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Gli eletti non necessariamente sono i migliori, anche se hanno la maggior parte dei voti
di SABINO CASSESE
«Un conto è rispondere agli uffici studi, un conto è rispondere ai cittadini». Vorrei provare a
svolgere qualche riflessione su questa frase del ministro dell’Economia e delle Finanze (che è anche
un acuto studioso delle istituzioni) e sulle sue implicazioni, perché essa tocca un problema
centrale del buon governo, quello dell’ accountability . Si può dire, innanzitutto, che la politica non
risponde agli «uffici studi»? I governi (e anche i Parlamenti) sono sottoposti al controllo di
giudici; sono limitati dall’azione di autorità indipendenti e di organi sovranazionali; debbono
operare attraverso funzionari scelti secondo il criterio del merito e vincolati al rispetto della
legge; amministrano a mezzo di procedure e sottoponendosi a regole; oltre a essere giudicati ogni
giorno da agenzie di rating e dall’opinione pubblica. Insomma, la politica non è interamente libera,
perché la democrazia è solo una delle componenti di uno Stato costituzionale.
Si può dire, in secondo luogo, che il raggio dell’azione degli eletti dal popolo non ha limiti? I
nostri Stati sono pieni di istituzioni che non rispondono al popolo. Le autonomie funzionali,
quali le Camere di commercio, gli Istituti di ricerca, le Università, rispondono ad altri. Interi
corpi pubblici, quali insegnanti e sanitari, rispondono a regole tecniche delle rispettive
professioni, perché nessuno entrerebbe volentieri in una sala operatoria dove i chirurghi siano eletti o
debbano rispondere agli eletti dal popolo. Schumpeter ha scritto che una condizione per il successo
della democrazia è che il raggio effettivo della decisione politica non sia eccessivamente esteso.
Le istituzioni in cui viviamo, poi, si fidano tanto poco delle scelte popolari da imporre non
soltanto elezioni ripetute, ma anche elezioni a più livelli (circoscrizione, Comune, Provincia,
Regione, Stato, Unione europea). Così si risponde ai cittadini in modo diverso, e si contrappongono tra
di loro le rappresentanze popolari: il governo centrale può essere di centrosinistra, uno comunale
di centrodestra, uno regionale di altra maggioranza ancora.
Un sottosegretario in lite con il suo ministro dichiarò l’8 aprile 2002 che bisognava «rispettare
la volontà politica dei nostri elettori, che non vogliono l’intervento sull’Ara Pacis, non
vogliono l’arte dei tubi di gomma alla Biennale». Aveva torto.
Il popolo non prende decisioni estetiche o architettoniche. Anzi, non prende alcuna decisione
(salvo i referendum). Si limita a scegliere chi dovrà decidere e, poi, a confermarlo o non
confermarlo, in relazione alla bontà delle decisioni prese (Rousseau si chiedeva che cosa potesse impedire la
schiavitù di un popolo per tutto il tempo che separa un’elezione dall’altra). Quel sottosegretario
usava il termine democrazia in senso enfatico, come governo del popolo, mentre il governo è nelle
mani degli eletti, che non necessariamente sono i migliori, anche se hanno la maggior parte dei
voti. Persino l’elezione non è sempre sinonimo di democrazia: anche il Papa è eletto, ma nessuno si
aspetta che risponda ai suoi elettori.
Concludo dubitando che il ministro dell’Economia e delle Finanze abbia ragione nel distinguere
così nettamente il popolo dagli «uffici studi». Temo che egli si sia, per un momento, lasciato
incantare dalla mitologia (di sinistra) d’una espansione infinita della democrazia e d’un esclusivo
rapporto della politica e del governo con il popolo.