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LA NONVIOLENZA E’ LA NOSTRA SPERANZA

Publie le lunedì 19 gennaio 2004 par Open-Publishing

L’articolo di Bernocchi, Bersani, Cannavò e Casarini su Liberazione non riesce a darmi speranza.
Aldilà dei tanti ragionamenti mi trasmette il messaggio di una condanna: come se noi tutti che
lottiamo, disobbediamo, resistiamo, fossimo condannati a non poter uscire dal paradigma della
violenza, di fronte ad un potere che si fa sempre più violento, e specie là dove la guerra asimmetrica dei
potenti schiaccia ogni libertà e resistenza. Ma credo che sia proprio questa condanna che dobbiamo
smentire, questo paradigma che dobbiamo rompere nel nostro pensiero, nelle nostre pratiche, nel
sostegno che diamo ai movimenti di liberazione degli altri popoli.

Se vogliamo aprire le porte di un altro mondo possibile, dobbiamo saper immaginare un modo diverso
di lottare contro la ferocia e la violenza dell’Impero. Definirsi nonviolenti non è una
insufficienza, non è un minus, ma al contrario è il primo passo di una utopìa concreta. E la questione
cruciale non è neanche stabilire se la resistenza armata in Iraq o in altri contesti sia legittima
oppure no, ferma restando una giusta distinzione tra terrorismo e resistenza. Il problema cruciale è
chi siamo noi, che cosa vogliamo essere. Infatti, una volta stabilito che è legittimo difendersi
anche con le armi, non abbiamo però fatto i nuovi passi che possano farci aprire la porta del
futuro; non abbiamo prodotto alcuna innovazione per essere diversi dalle pratiche dell’avversario che ci
sovrasta. Oggi l’Impero ha dichiarato guerra al resto del mondo, a cominciare dagli Stati
canaglia. Io credo che l’Impero sia invincibile sul piano militare, che il movimento può batterlo solo sul
piano politico distruggendo definitivamente e a livello planetario la sua egemonia. Ma per far
questo dobbiamo essere consapevoli di un nuovo ruolo. Non possiamo continuare a guardare al passato,
non ci basta giustificare i metodi di lotta del Novecento, dobbiamo annunciare il futuro, essere
ambasciatori di una nuova civiltà, cominciare concretamente un nuovo processo di civilizzazione che
dimostri l’impossibilità di governare il mondo con le armi. Ma se noi stessi continuiamo a
giustificarne l’uso, continuando a credere nella loro efficacia, vincerà sempre chi ha le armi più
potenti. Noi dobbiamo invece dimostrare che le armi non servono perché tutto il mondo si ribella al
loro uso e disarma i signori della guerra. Non so come faremo a fare questo e non so come si potrà
fare a liberare l’Afghanistan, la Palestina, l’Iraq e tutti gli altri, affermando la strada della
resistenza nonviolenta, civile, di massa.

Non so quali altri mezzi troveremo per affermare che tra Uccidere e Morire c’è una terza
via:Vivere. Ma so che la strada della nonviolenza è obbligata perché dobbiamo lasciare la violenza tutta
nelle mani dell’avversario, come depositario di quel mondo che vogliamo cambiare radicalmente.

E le contraddizioni economiche e politiche del capitalismo globalizzato mi fanno ben sperare che
questo ordine del mondo non è eterno e che noi contribuiremo a costruire l’alternativa.

La posizione così chiaramente espressa da Fausto Bertinotti non solo non è minoritaria nel
movimento di cui anch’io faccio parte, ma è maggioritaria nella società civile che si muove e confligge
insieme a noi e attorno a noi.

Il movimento delle lotte sociali e delle lotte per la pace e la giustizia si fonda su pratiche
nonviolente e di massa ed esprime creatività, vitalità, fiducia nella partecipazione collettiva.

Sappiamo che il nostro compito in Occidente è quello di disarmare l’Impero, opporre la pace alla
guerra, la nonviolenza alla violenza. Tutte le grandi idee rivoluzionarie del passato all’inizio
sembravano astratte e irrealizzabili. Oggi i nonviolenti vengono tacciati di astrattezza, ma la
storia ci darà ragione.