Home > La bolla speculativa
Ci eravamo fin qui astenuti, noi di Carta, dall’infilarci nella mischia che è seguita all’intervista rilasciata da Sergio Segio a Carlo Bonini, di Repubblica.
di Pierluigi Sullo - Carta
Consideriamo la faccenda l’equivalente di quel che nelle borse valori si definisce "bolla speculativa": una corsa generale all’acquisto basata sui si dice, sulle indiscrezioni di presunti "insider", su mezze parole del Wall Street Journal o del presidente della Federal Reserve, il leggendario Greenspan. Poi, di colpo, la bolla scoppia e rimangono sul terreno, metaforicamente morti o feriti, i piccoli risparmiatori che avevano creduto di partecipare al grande gioco.
Com’è ovvio, anche questa "bolla" si sgonfierà presto, come è accaduto ad esempio con il "dibattito" che ha consumato oceani di inchiostro nell’agosto che seguì il luglio di Genova, nel 2001, quando dal movimento ogni genere di censore reclamava prese di distanza o supplenza della polizia nei confronti dei "black bloc", con i quali bisognava dimostrare di non avere alcuna "contiguità", di non frequentare alcuna "zona grigia" e simili [ricordare fa bene, perché caratteristica preminente delle "bolle speculative" è di essere a un tempo enormi e impressionanti, ma di scomparire repentinamente dalla vista e dalla memoria: i media soffrono di amnesia]. Il parallelo con Genova, come si vedrà, non è casuale. Ma, in questi giorni, tutti si esercitano, sui giornali e nelle infinite liste di discussione elettroniche, a condannare, prendere le distanze, chiosare le frasi altrui, stendere e infilare comunicati in luoghi impropri, difendersi, ecc. Tale è il potere del duo di Repubblica Bonini e D’Avanzo [il primo rivela, il secondo commenta, quando rivelazione e commento non vengono direttamente miscelati].
Bene, anzi male. Però, se si riuscisse per un momento a considerare questa vicenda per quel che è, cioè un rumore molesto, e si tenesse la testa fredda, forse si potrebbero fare alcune utili considerazioni. La prima delle quali è che il "movimento" [D’Avanzo, su La Repubblica, lo scrive con la maiuscola, chissà perché] non ha alcun "album di famiglia" su cui riflettere penosamente. Ce l’hanno, questo sì, le componenti di sinistra e di sinistra radicale, nel movimento, che però, nel suo insieme, come si cerca invano di far capire a quei tali giornalisti da anni, non è né un movimento di estrema sinistra come negli anni settanta, né la pura somma delle sue parti organizzate. La miscela, di organizzazioni e singoli, di culture, dell’ampiezza globale del punto di vista, hanno prodotto qualcosa di inedito. Stiamo parlando di un’altra famiglia, in un altro secolo.
Infatti, la miscela ha prodotto il fatto che in ogni testo, appello, documento, statuto di forum sociale, dalla Carta di Porto Alegre fino al documento sulla base del quale si costituì il Genoa social forum, si ribadisce, sempre, il carattere nonviolento delle azioni, della protesta, di tutto quel che si vuol fare. E questo non è accaduto perché si tratta di persone perbene, sebbene anche, ma soprattutto perché il movimento ha ruotato l’asse, per così dire, delle priorità che erano caratteristica dei movimenti sociali e politici del Novecento: non c’è alcuna presa del potere alla quale aspirare, e per la quale organizzare il combattimento; si tratta preferibilmente di costruire la società "altra" qui e ora e non principalmente rivendicare e scontrarsi con l’"avversario", sebbene anche. Lo ha opportunamente ricordato Luca Casarini, in questi giorni [anche se sulla sua nozione di "conflitto", e non ai fini della "bolla" sul terrorismo, sarebbe interessante approfondire].
Questa è la realtà, documentabile all’infinito: da cosa si valuta un movimento, se non dalle sue espressioni palesi, dalle sue parole e dai suoi atti? Chi dice che il movimento non ha preso distanze dalla violenza come forma di lotta politica, non conosce questo movimento. E chi, come Segio, parla di "album di famiglia", allude a qualcosa che non esiste più: è rimasto aggrappato al passato, pur avendo fatto in questi anni buonissime cose, di molte delle quali si possono trovare tracce consistenti in questo stesso sito. Ma insomma, siamo ciechi? Cosa sarebbe accaduto, negli anni settanta, dopo tutto quel che è successo a Genova? Dopo l’uccisione di Biagi alla vigilia di una grande manifestazione popolare per l’articolo 18? Dopo l’incredibile campagna terrorista [sì, terrorista] che precedette il Forum sociale europeo? Chi ha qualche anno in più, sa che il movimento è stato provocato in ogni modo, perché scegliesse la strada del rispondere colpo su colpo. E non è accaduto.
E’ talmente vero, questo, che le stesse componenti del movimento che vengono da una cultura di sinistra radicale hanno ciascuno a suo modo sottoposto a verifica i loro schemi tradizionali, basati sulla radicatissima - nel Novecento - idea che la violenza è "levatrice della storia", e che si tratta di "prendere il potere". I disobbedienti lo hanno fatto assumendo, da ormai molti anni, il discorso zapatista [in cui il simbolismo dell’insurrezione armata vale come segnale della transizione dal guevarismo a una innovazione culturale tanto imponente, da suscitare appassionato interesse in tutto il mondo]. Il segretario di Rifondazione, Bertinotti, ha scritto qualche giorno fa, prima della "bolla", che per il suo partito la nonviolenza e una scelta "strategica" e non "tattica", ultimo passo di un cammino iniziato con il ripudio esplicito e definitivo dello stalinismo. Quanto ai Cobas, fanno secondo me resistenza a non concepire più l’azione politica e sindacale come la risultante di "rapporti di forza" [che peraltro esistono, eccome], ma hanno partecipato con grande lealtà a tutta l’attività del movimento, da Genova in poi, e chiunque ne conosca azione e documenti troverebbe ridicola qualunque accusa di contiguità con il terrorismo.
Il punto, però, non è dimostrare che il movimento non è "conquistabile" dalle tesi, diciamo così, archeologiche dei neo-brigatisti. Questo è nelle cose. Il punto è come mai si continuino a sollevare problemi inesistenti come questo, e perché ci si affanni a replicare. Giuseppe D’Avanzo scrisse, quando finalmente decine di poliziotti furono implicati come responsabili delle incredibili violenze alla Diaz e a Bolzaneto, che non poteva essere che l’intero vertice della polizia avesse ordinato un tale macello. Non portò alcuna prova di questa affermazione, l’editorialista di Repubblica, per la semplice ragione che il suo era un atto di fiducia, se non di fede, visto il numero di stretti collaboratori di De Gennaro che sono finiti nelle reti dei magistrati genovesi. Forse D’Avanzo ha qualche contiguità, questa volta effettiva, con De Gennaro, ma non è questo l’importante: piuttosto, c’è da chiedersi come mai non abbia saputo fare due più due, e chiedersi perché questo movimento dalla "doppia verità" [a proposito, l’allusione a questa formula è di Gabriele Polo, sul manifesto, e serviva a dire, se non ho capito male, che le sinistre devono definitivamente liberarsene, come ha fatto il nuovo movimento] non abbia prodotto prime linee o brigate di vari colori per vendicarsi di una violenza così brutale, arbitraria e finora impunita [come nel caso della morte di Carlo Giuliani].
Non se lo è chiesto, perché è più facile e più utile tirar giù dalla soffitta la roba vecchia, ignorando anche l’obiettiva circostanza per cui le "nuove Brigate rosse" sono un micro-gruppo quasi inesistente [per ammazzare una persona non servono, purtroppo, grandi organizzazioni]. Così, le quotazioni del giornalista che "rivela" e di quello che "commenta" salgono, alla borsa dei media. Più o meno, è tutto qui. Carta di giornale sprecata. Sergio Segio ha il torto di non aver compreso che il gioco era questo, e che la sua visione datata delle cose del movimento sarebbe stata utile a questi fini.
Bene, basta. Toccherà riposare un po’, almeno fino alla prossima "bolla speculativa".