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La crisi rimossa...della manifestazione pacifista sabato a Roma

Publie le mercoledì 22 settembre 2004 par Open-Publishing

di BENEDETTO VECCHI

Giustificare il fallimento della manifestazione pacifista sabato a Roma a causa di un temporale significa nascondere le difficoltà, meglio la crisi del movimento contro la guerra. Perché la forza d’urto del movimento della guerra si sia dileguata in un normale pomeriggio autunnale sarà sicuramente motivo di discussione nella galassia pacifista. Ma prima comunque che la parola prenda il suo corso, va ricordato che uno dei motivi del fallimento della manifestazione sta nel pessimo funzionamento dei luoghi del movimento deputati a prendere le decisioni. In passato, abbiamo spesso assistito ad assemblee dove si discuteva e si prendevano decisioni senza dover passare le forche caudine del principio di maggioranza. La circolarità delle informazioni e la condivisione delle scelte era infatti il bene comune a cui tutti tenevano. Difficile ritrovare questo stile di lavoro politico nel cosiddetto gruppo di continuità o nel «Comitato fermiamo la guerra», che hanno entrambi girato in tondo senza aver chiaro quali potessero essere gli obiettivi da raggiungere. Alla fine, la decisione di fare una manifestazione con parole d’ordine vaghe è apparsa alla galassia no-war un inutile esercizio di retorica.

Affrontare l’intrigo iracheno non è certo facile. C’è una guerra in atto, che vede in campo l’esercito più potente del mondo e una guerriglia che usa rapimenti, attentati, kamikaze per infliggere colpi e terrorizzare il nemico. E che stritola anche chi la guerra l’ha avversata. Difficile quindi rispondere a questa situazione. Ma non si può certo stare ad attendere, come è stato fatto, che la matassa sia sbrogliata da un governo che ha aderito alla guerra o dalle forze di opposizione, perché così facendo si rinuncia ad un altro bene comune del movimento, la sua autonomia dalle forze politiche. La sua crisi è dunque crisi di rappresentatività delle sue componenti organizzate, troppo attente alle compatibilità dettata dall’agenda politica di un centrosinistra litigioso e altalenante sulla questione del ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, cioè l’unica parola d’ordine che aveva avuto il consenso, nei mesi scorsi, di tutte le anime del movimento contro la guerra.

E tuttavia la perdita di autonomia del movimento non è dovuta solo al cambiamento di linea di Rifondazione comunista in questi mesi. Tutte le reti e le componenti organizzate hanno infatti da tempo cominciato ad andare ognuna per contro proprio, chi scegliendo di ritornare alla normalità, chi sperando che con una appropriata azione di lobby i temi del movimento possano trovare spazio nell’agenda politica del centro-sinistra. E questa rinuncia al lavoro in comune ha coinvolto tanto la Cgil, che l’Arci, che la Rete Lilliput, nonché gli stessi disobbedienti, implosi proprio a causa del nodo del rapporto con le forze politiche in vista delle prossime elezioni generali. Per questo, e solo per aderenza alla realtà, la recente svolta di Fausto Bertinotti è cartina di tornasole di un’operazione politica di normalizzazione condotta da tutto il centro-sinistra nei confronti del movimento contro la guerra. Ciò che si è mosso nella società negli ultimi, drammatici quattro anni ha sicuramente modificato gli orientamenti dell’opinione pubblica: ora però è tempo di tirare le fila per prepararsi allo scontro elettorale con Berlusconi. E’ questo il refrein che si sente ripetere continuamente. La cacciata da Palazzo Chigi del Polo delle libertà è un obiettivo condivisibile, ma non può costituire certo l’unica coordinata dei movimenti sociali che si sono presentati nell’arena pubblica in questi anni. In fondo, chiedere un altro mondo possibile è qualcosa di più che chiedere un cambio di governo. Accettare la logica di non disturbare il manovratore - il centrosinistra in tutte le sue varianti - ha quindi condotto il movimento nelle secche di un logoro politicismo.

Il filosofo francese Alain Badiou ha scritto che l’opinione pubblica è sempre una protesi della politica parlamentare, perché si limita a esprimere punti di vista che non vogliono trasformarsi in una politica conseguente. Il movimento contro la guerra è caduto in questa trappola e si è trovato ad essere un’estensione della politica istituzionale.

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/21-Settembre-2004/art21.html