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La dialettica non è un qualcosa che ci deve dare fastidio

Publie le domenica 18 gennaio 2004 par Open-Publishing

Vorrei intervenire sul dibattito aperto da "Liberazione" sul tema
non-violenza. Colgo subito un aspetto positivo: la decisione di allontanare
dal movimento quelle forze grigie di confine che ne potrebbero minare il
carattere aperto e fecondo. E d’altra parte il rigetto definitivo dello
stalinismo come pratica politica (non dell’Urss), cosa palese ma
scarsamente praticata.

Premetto, di essere d’accordo con Ingrao sulle valutazioni che egli ha più
volte sottolineato negli interventi sul nostro giornale. E qui vorrei
approfondire (pur nella ovvia sintesi) gli spunti che lui ha lanciato, ma
sui quali vedo una riluttanza diffusa a intervenire, e che invece sono i
temi politici/ideologici che già ci troviamo davanti.

Partiamo dalla non-violenza. Essa evidentemente esprime un afflato etico
condivisibile che deve informare le vite di ciascuno di noi. Il problema è
un altro, ovvero l’assolutizzazione concettuale che se ne fa. Essa è
inattendibile per diversi fattori. Il primo, è che nessuno storico
indagherebbe la storia con quel paradigma, a meno di non scivolare sul
terreno crociano, ovvero liberale (per sintesi, perché il pensiero è ben
più raffinato, egli pensò alla storia come storia della libertà). Ed
infatti mettere sullo stesso piano la vendetta con la repressione non solo
non ha nessun appiglio scientifico, ma appare evidentemente banale. La
questione andrebbe invece rimessa sulla negazione del concetto schmitiano
della politica come continuazione della guerra, che traduce il tutto nella
volgarizzazione amico/nemico, e che riporta questa estremizzazione anche
all’interno del proprio schieramento, producendo distorsioni vergognose
come quelle dei gulag. La questione diventa quindi non una semplice scelta
etica (peraltro la violenza scaturisce proprio da quella sostanza), ma una
dura battaglia storica sul tema del potere, della sua effettività storica,
dei rapporti tra le classi, della intima fallacia della democrazia.

Quest’ultima affermazione ci interroga sulle nostre vite: come fare per
salvaguardare la democrazia e al contempo produrre una critica che ne veda
le incongruenze, tale per cui pensiamo ad un altro mondo possibile, che
appunto non è la democrazia. Anche qui sarebbe bene ricordare che la
democrazia non è un valore, ma una forma determinatasi dallo sviluppo
storico e "obbediente" alla fase del capitalismo maturo. Mi pare di dire
cose lapalissiane. Banalmente potrei dire: il voto di Agnelli equivale a
quello dell’operaio di Melfi? Le strutture sovranazionali, come l’Fmi, sono
aliene alla democrazia o ne costituiscono una parte della stessa? Come fare
per rendere veramente egualitario il voto di ciascuno (per forza bisognerà
limitare l’efficacia di qualcun altro) e al contempo sostenere
l’eliminazione di quelle strutture senza prevedere una reazione violenta e
repressiva delle forze dominanti?

In Iraq, sta succedendo qualcosa di complesso. Mancano in quel paese le
strutture della democrazia (almeno come passaggio storico). Al contempo
l’occupazione, perché di questo si tratta (anche da parte degli italiani),
continua. Possiamo rimanere equidistanti dagli invasori e dai "poveracci"
locali che si battono contro "l’impero del male"? Dobbiamo porci le stesse
domande di Ingrao?

In India si sta per aprire il Forum sociale mondiale. Diversi intellettuali
hanno aperto una serie di interrogativi, tra i quali spuntano decisi la
questione della lotta politica e del potere come obiettivi e tematiche di
praxis del movimento, pena il riflusso. Vogliamo parlarne? O preferiamo le
grandi e particolari opzioni etiche, peraltro condivisibili, che però non
propongono la trasformazione del mondo come necessaria ed ineludibile, e
che quindi spesso finiscono per affluire nel ventre grasso dei nostri
vicini di Partito?

Essendo la mia pratica politica impregnata di movimento, di gramscismo e di
disponibilità al confronto con le diversità, non sono imputabile di volere
un Partito settario. Penso che l’estremizzazione ideologica porti alla
sconfitta e alla rovina delle idee di libertà che i comunisti promuovono, e
anzi ne sia la negazione. Ma l’assolutizzazione concettuale della pratica
politica è la cosa più dannosa che un Partito comunista, o un’aggregazione
che si richiami a quel mondo, possa avere. Rientra per-altro in campo quel
regime della verità che è intrinseco alla religione. Siamo uomini e donne
del nostro tempo, viviamo pienamente questa società per poterla cambiare,
senza farci irretire nelle sue forme dominanti. E anche la nascita, non la
giustezza del progetto in sé, del partito della sinistra europea, ha in sé
i germi della pratica politica che si dice di voler eliminare. La
dialettica, soprattutto quando si colgono le ragioni di una iniziativa
politica, non è un qualcosa che ci deve dar fastidio…